Etica e critica dell’identità nell’orizzonte del postmoderno
Una lettura di Judith Butler
DOI:
https://doi.org/10.13135/2036-542X/7525Abstract
Fin dalle origini, da quando cioè, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, viene formulato in termini filosofici, il concetto di postmoderno innesca un dibattito, dai toni spesso infuocati, sul significato etico-politico della proclamazione della fine della modernità. In particolare in seguito alla pubblicazione, nel 1979, di La condition postmoderne di J. F. Lyotard, si levano numerose voci a difesa di quella tradizione illuministica e progressista della modernità di cui il postmoderno dichiarerebbe la disfatta lasciando l’epoca contemporanea preda di un facile relativismo buono per i privilegiati e i vincenti nella competizione mondiale ma incapace di fronteggiare le ingiustizie che ancora regnano nel mondo. La «gaia rassegnazione» che in parte pervade le società occidentali negli anni ’80 poteva in effetti offrire argomenti a favore di questa visione sostenuta in modo esemplare dal filosofo tedesco J. Habermas. Non mancano tuttavia, già in quel primo periodo, posizioni come quella espressa da G. Vattimo, che emerge come uno dei principali pensatori del postmoderno, e propone una riflessione sul suffisso «post» a partire dalla nozione heideggeriana di Verwindung piuttosto che da quella hegeliana di Uberwindung o Aufhebung. Il risultato è la rinuncia alle certezze della modernità: il Soggetto, la filosofia della storia, la celebrazione dei trionfi tecnoscientifici, in favore di una nozione «debole» del soggetto e del reale e di un rapporto con il passato, connotato come pietas, che lo vede più come un cumulo di rovine che come svolgimento delle sorti progressive dell’umanità. Ciò non significa però rinuncia alle istanze etico-politiche di emancipazione che Vattimo rivendica per il postmoderno fin dagli esordi del dibattito.