Il problema della definizione di genocidio
Parole chiave:
Lemkin, Genocidio, ONUAbstract
Gli eccidi di massa sono una costante della storia universale, ma il termine ‘genocidio’ è sorto nel novecento, nell’epoca dei regimi totalitari. Non a caso il concetto ebbe definizione giuridica quando era in corso la Shoah, lo sterminio degli ebrei d’Europa divenuto il paradigma dei genocidi, quello cui tutti gli altri verranno commisurati e al quale è stato assegnato, al contempo, un carattere di unicità. Gli omicidi di massa perpetrati su popolazioni civili raggiunsero nel novecento non soltanto una dimensione quantitativa mai raggiunta prima, ma anche una nuova dimensione qualitativa: il carattere ideologico derivante dalla natura totalitaria dei regimi perpetratori (ideologia utopico-razziale quella nazista, ideologia utopico-sociale quella comunista); l’essere l’esito o di politiche ipernazionaliste (implicanti una pulizia etnica, come fu per il genocidio armeno) o di programmi rivoluzionari (l’epurazione della società da determinate classi o gruppi sociali, come per i democidi in Unione Sovietica, in Cina, in Corea del Nord e in Cambogia). Indubbiamente, la Shoah è stato il genocidio che ha destato maggiormente l’interesse scientifico perché fu un massacro pianificato da uno stato totalitario, con la creazione di “apparati di distruzione di massa”, l’organizzazione “industriale” dello sterminio e la diffusione di campi di internamento come “fabbriche della morte”.
Il termine ‘genocidio’ venne coniato e definito come crimine durante la Seconda guerra mondiale a opera del giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin, il quale affermò che il fenomeno non poteva dirsi nuovo, ma nuovo era il modo di concepirlo e ciò implicava la necessità d’introdurre nuovi termini. Nel 1944 Lemkin pubblicò un volume intitolato Axis Rule in Occupied Europe, in cui definì il genocidio come “piano coordinato di differenti azioni mirante alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’intento di annientarli”. Gli individui non vengono perseguitati in ragione delle loro azioni, ma in quanto appartenenti al gruppo nazionale (nel senso latino di natio = stirpe, popolo). Obiettivi specifici del genocidio sono “la disintegrazione sociale e la distruzione biologica del gruppo”. Secondo Lemkin, distruzione dell’identità e annientamento fisico ricorrono più volte nella storia universale, ma le misure predisposte dai nazionalsocialisti nei territori occupati sono da considerarsi “tecniche di genocidio”, che includono misure politiche, sociali, culturali, economiche, biologiche, fisiche, religiose e morali, tutte volte a colpire il patrimonio identitario di un gruppo minoritario. L’annientamento dell’identità prevede due fasi: la distruzione del gruppo perseguitato e la sua sostituzione da parte del gruppo egemone.
Raphael Lemkin. Fonte: un.org
Fra il 1945 e il 1946 Lemkin fu consulente di Robert H. Jackson, procuratore capo del processo di Norimberga. La Corte militare internazionale (International Military Tribunal) che giudicò i principali criminali nazisti fu istituita l’8 agosto 1945 dall’Accordo di Londra, ma nel suo Statuto fondativo la fattispecie di genocidio non compariva ancora. Solo nell’autunno 1946, per iniziativa di Cuba, Panama e India, le Nazioni Unite posero in agenda la questione del genocidio. La risoluzione n. 96 dell’11 dicembre 1946 qualificò il genocidio “crime under international law“. Nel 1947 una Convenzione – a cui Lemkin lavorò come esperto della Human Rights Division – stese una bozza (Secretariat Draft) in cui, accanto al genocidio fisico e biologico, fu incluso il genocidio culturale. Sulla base di questi lavori preparatori si arrivò alla Convenzione sul genocidio del 9 dicembre 1948 (Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide), approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’art. I qualifica il genocidio come “crimine di diritto internazionale” e statuisce il dovere preventivo e punitivo degli stati contraenti. L’art. II definisce la tipologia delle vittime e delle condotte criminali. Le vittime appartengono a un gruppo definito in base a nazionalità, etnia, razza o religione (per quanto problematiche possano risultare tali attribuzioni e disomogenee le categorie considerate). Sono definiti atti genocidari: a) l’uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi alla loro integrità fisica o mentale; c) sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro. L’art. III elenca i correlati atti punibili, ovvero a) gli atti finalizzati a commettere uno o più dei cinque crimini previsti dall’art. II; b) l’intesa (conspiracy) mirante a commettere genocidio; c) l’incitamento (ossia l’istigazione) diretto e pubblico; d) il tentativo di genocidio; e) la complicità nel genocidio. L’art. IV stabilisce l’imputabilità dei governanti e dei funzionari pubblici, ma anche degli individui privati.
Ales Bebler (Jugoslavia) firma la Convenzione sul genocidio. Fonte: un.org
Con la categoria di genocidio il baricentro del diritto penale internazionale si è spostato dall’ambito militare (i crimini di guerra) a quello politico (è diventata frequente, in proposito, l’espressione “macrocriminalità politica”) e si è compiuta una distinzione tra criminalità individuale e criminalità di sistema, comprendendo i crimini commessi per ordine o con la compiacenza delle autorità politiche. Quanto all’individuazione delle vittime, però, la Convenzione non include i gruppi perseguitati dagli stati per motivi politici, in considerazione del fatto che solitamente si tratta di ribelli alle autorità costituite e per questo considerati nemici dello stato sulla base di criteri (socio)politici, non etno-religiosi. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva preso in considerazione l’ipotesi di estendere il concetto alla persecuzione politica, ma incontrò l’opposizione della delegazione sovietica e britannica (in ciò sostenute da Polonia, Argentina, Brasile, Sudafrica e Iran). Gli Stati Uniti accettarono di espungere la persecuzione di gruppi politici in cambio di una clausola che consentiva l’istituzione di un Tribunale penale internazionale. Ma l’esclusione della categoria delle minoranze politiche ha pregiudicato l’efficacia della Convenzione, dal momento che le politiche genocidarie includono sempre la liquidazione di élite e attivisti politici. I nazisti eliminarono l’opposizione interna comunista, socialista e liberale, e annientarono le élite nazionali nei paesi che occuparono. Va sottolineato che la Convenzione tiene conto sia dell’elemento oggettivo (l’actus reus, l’atto criminoso) sia dell’elemento soggettivo (la mens rea), in quanto il genocidio presuppone sempre una pianificazione, dunque un’intenzione criminosa. L’esistenza di un piano esecutivo è sempre riconducibile a un’unità politica organizzata, in età contemporanea a uno stato. L’intenzione non presuppone la premeditazione dell’atto da parte dell’esecutore, ma l’esistenza di un piano, di cui l’esecutore è a conoscenza (non necessariamente dettagliata). Perché si possa parlare di atto genocidario, deve esservi un nesso tra l’atto individuale e l’azione collettiva, quindi l’atto criminale è collocabile in un contesto di violenze sistematiche e pianificate.
Le scienze sociali inizialmente inclusero il fenomeno genocidario negli studi sui conflitti etnici o in quelli sulla discriminazione delle minoranze, oppure, ricorrendo a categorie psicologiche, negli studi sull’impulso distruttivo e sull’aggressione. Negli anni settanta, per effetto delle immagini televisive della guerra civile in Biafra e degli eccidi nel Pakistan orientale (oggi Bangladesh), avvenne una svolta e apparvero le prime ricerche d’impianto comparativistico a opera di Vahakn Dadrian (storico e sociologo armeno), Leo Kuper (sociologo sudafricano), Israel Charny (psicologo ebreo-americano), Irving Louis Horowitz (sociologo americano), Helen Fein (sociologa e storica americana). Negli anni novanta, per effetto delle guerre nell’ex Jugoslavia e degli eccidi in Ruanda, che condussero all’istituzione di due tribunali penali internazionali (International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, 1993, e International Criminal Tribunal for Rwanda, 1994), gli studi si intensificarono e oggi sono decine le riviste specializzate e migliaia le pubblicazioni sui Genocide Studies. La tendenza a definire il genocidio in modo diverso dalla Convenzione del 1948 e il tentativo di classificare i massacri avvenuti nel corso della storia umana hanno portato non soltanto alla formulazione di definizioni alternative, ma anche alla coniazione di nuovi termini. Le scienze sociali hanno ridefinito la nozione giuridica di genocidio in tre direzioni: 1) con la crescente consapevolezza dei crimini compiuti dai regimi comunisti, sono stati inclusi gli eccidi con motivazione politica; 2) è stata inclusa la distruzione delle identità culturali (già Lemkin aveva definito il genocidio culturale ‘etnocidio’); 3) si è data minore rilevanza all’intenzionalità, attinente alla questione giuridica dell’imputazione, per dare maggior spazio alla descrizione del conflitto sociale di cui il genocidio è espressione estrema. Il concetto ha così un triplice impiego: a) l’accezione ristretta, di tipo giuridico, che corrisponde alla definizione data dalla Convenzione del 1948; b) un’accezione più ampia, che include gli eccidi con motivazione politica e per i quali è stata proposta dai politologi Ted Robert Gurr e Barbara Harff l’adozione del termine ‘politicidio’ e dallo storico e politologo Rudolph J. Rummel l’uso del termine ‘democidio’ (inclusivo di tutte le forme di omicidio di massa compiute da organi governativi, genocidio compreso); c) l’accezione più estesa, che include ogni massacro di popolazione civile avvenuto storicamente (soprattutto se la popolazione eliminata apparteneva ad altra etnia). Vi sono poi d) categorie “spurie” come il genocidio “indiretto” per carestia politicamente indotta: è il caso dell’Holodomor, la grande fame in Ucraina prodotta dalla collettivizzazione forzata di Stalin nei primi anni trenta. Va detto che il neologismo ‘democidio’ non è fruibile nell’accezione estensiva di Rummel, perché la categoria di genocidio è ormai chiaramente definita dal punto di vista giuridico, perciò è bene tenerla distinta da quella di democidio, categoria giuridicamente ancora indeterminata e controversa. Si mantiene dunque la distinzione genocidio/democidio (intendendo quest’ultimo come violenze contro civili perseguitati per ragioni politiche, giuridicamente qualificabili come crimini contro l’umanità). Se il genocidio è la forma estrema della pulizia etnica, il democidio è la forma estrema dell’epurazione sociale (una “pulizia di classe”).
Holodomor in prima pagina sul Daily Express (6 agosto 1934). Fonte: Daily Express Journals
Le discipline interessate a definire il genocidio sono tante (la giurisprudenza, la storiografia, la politologia, la sociologia, la filosofia, le scienze delle relazioni internazionali) e la moltiplicazione di proposte ha generato confusione e ambiguità nell’ambito della comunicazione e a livello di opinione pubblica (in particolare nel mondo dei media). Per questo si sono avute più recentemente proposte di utilizzazione ristretta o addirittura di abbandono del termine. Se termini quali ‘genocidio’ (Lemkin), ‘democidio’ (Rummel), ‘politicidio’ (Gurr e Harff), ‘classicidio’ (Michael Mann), ‘indigenicidio’ (Richard Evans), ‘femminicidio’ (Diana Russel), ‘gendericidio’ (Mary Anee Warren) hanno come denominatore comune l’assassinio sistematico di esseri umani, altre espressioni sono state coniate per indicare distruzioni che non implicano di per sé l’eliminazione fisica: ‘etnocidio’ (Lemkin, per indicare la cancellazione di una cultura), ‘ecocidio’ (Richard Falk, per indicare la catastrofe ambientale), ‘urbicidio’ (Francesco Mazzucchelli, per indicare bombardamenti su città come Coventry, Dresda, Hiroshima e Nagasaki, Kabul, Baghdad, Aleppo), ‘libricidio’ (Teo Kuper), ‘memoricidio’ (Juan Goytisolo). Per indicare il potenziale distruttivo dei bombardamenti atomici per la vita sul pianeta, il filosofo Günther Anders introdusse il termine ‘olocidio’, termine oggi usato con riferimento alla catastrofe ambientale, definita anche ‘omnicidio’ o ‘umanicidio’.
Il termine genocidio spesso è stato anche banalizzato nel suo impiego. Si etichettano come tali manifestazioni di violenza che meriterebbero altre definizioni: non necessariamente discriminazioni di minoranze, politiche di espulsione, pogrom configurano un genocidio (pur includendone la potenzialità). Politiche sistematiche di sopraffazione (i cosiddetti “olocausti coloniali”), i bombardamenti su Hiroshima o sul Vietnam, alla luce delle categorie dello Statuto di Londra, sono definibili come crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Se è generalmente riconosciuto il carattere genocidario della Shoah, dello sterminio degli Armeni e dei Tutsi in Ruanda, risulta invece controverso il caso bosniaco all’inizio degli anni novanta, da taluni considerato genocidio, da altri come una forma di “pulizia etnica”.
Per saperne di più
Sémelin, J. (2007) Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Torino.
Leotta, C. D. (2013) Il genocidio nel diritto penale internazionale. Dagli scritti di Raphael Lemkin allo Statuto di Roma, Giappichelli.
Portinaro, P.P. (2017) L’imperativo di uccidere. Genocidio e democidio nella storia, GLF editori Laterza.
Published in:##submission.downloads##
Pubblicato
Fascicolo
Sezione
Licenza
Gli autori che pubblicano su questa rivista accettano le seguenti condizioni:
- Gli autori mantengono i diritti sulla loro opera e cedono alla rivista il diritto di prima pubblicazione dell'opera, contemporaneamente licenziata sotto una Licenza Creative Commons - Attribuzione che permette ad altri di condividere l'opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione su questa rivista;
- Gli autori possono aderire ad altri accordi di licenza non esclusiva per la distribuzione della versione dell'opera pubblicata (es. depositarla in un archivio istituzionale o pubblicarla in una monografia), a patto di indicare che la prima pubblicazione è avvenuta su questa rivista;
- Gli autori possono diffondere la loro opera online (es. in repository istituzionali o nel loro sito web) prima e durante il processo di submission, poichè può portare a scambi produttivi e aumentare le citazioni dell'opera pubblicata (Vedi The Effect of Open Access).