Le street gango come forma di radicalizzazione glocale
Parole chiave:
Sicurezza, Conflitto, Violenza urbana, Globalizzazione, SudamericaAbstract
A partire dagli attacchi terroristici dell’11 settembre del 2001, l’attenzione delle istituzioni nazionali e internazionali e dei media è stata pressoché monopolizzata dalla minaccia rappresentata dal fondamentalismo islamico, lasciando ben poco spazio all’analisi di eventi ben più diffusi e invasivi – e, a volte, altrettanto radicali. Quello della diffusione delle gang giovanili è un fenomeno antico, che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo delle grandi città industrializzate, a partire da paesi come gli Stati Uniti d’America – dove, non a caso, è stato studiato fin dall’inizio del Novecento con risultati che ancora oggi, a volte, mantengono intatto il proprio valore. Negli ultimi decenni, tuttavia, ha conosciuto uno sviluppo senza precedenti anche nei paesi emergenti, come conseguenza della crescita incontrollata dell’urbanizzazione; e assunto nuove forme transnazionali, grazie alla maggiore mobilità criminale favorita dalla globalizzazione. Il significato etimologico del termine (dell’inglese antico, ma di origine germanica) è, del resto, quello di “gruppo di persone che vanno in giro insieme”.
Koreatown, Los Angeles, 1993
There are several Mara Salvatrucha cliques in this sector of the city. Gang graffiti marks the territory which is contiguous to that of their Eighteenth Street enemies on Pico Union.
Copyright © Donna De Cesare,1993
Sono due i caratteri che contraddistinguono le gang, ovunque nel mondo. Il primo, già evocato, è il rapporto intenso e imprescindibile con la strada; in particolare quella urbana del ghetto, dello slum: la gang come corner society. Il secondo è la marginalità: la gang costituisce una forma embrionale di auto-organizzazione di una comunità minoritaria tagliata fuori dai normali meccanismi di ascesa sociale. Questo ne fa, di conseguenza, una forma tipica degli ultimi arrivati, come i migranti – che nella Chicago degli anni Venti erano europei, soprattutto polacchi, italiani e irlandesi. Ciò contribuisce a spiegare, inoltre, la facilità con la quale la gang sia stata a lungo e prevalentemente identificata come una forma di devianza sociale, se non di pura e semplice criminalità, e abbia contribuito ad alimentare stereotipi a sfondo razziale, finendo con l’oscurare il dato rilevante che proprio la comunità di appartenenza rappresentava il primo bersaglio da vittimizzare attraverso il racket delle estorsioni, il prestito a usura, il gioco d’azzardo.
Soyapango, El Salvador
A homeboy is subjected to a punishment beating for fitting with the wife of a fellow gang member.
Oggi, da un lato, l’appartenenza etnica tende a passare in secondo piano rispetto alle esigenze organizzative e al controllo del territorio e delle sue risorse. Seppure prevalga ancora l’omogeneità all’interno dei singoli gruppi, l’etnia non è quasi mai causa immediata di conflitto, ma, al contrario, le turf war di cui essi si rendono protagonisti vedono spesso contrapposti elementi della stessa etnia. Dall’altro, alcune gang hanno dimostrato di avere la capacità di creare insediamenti in paesi (talvolta in continenti) diversi da quelli di origine, dando vita a dei veri e propri fenomeni di colonizzazione criminale dei quartieri di approdo. Nella combinazione di questi due aspetti risiedono oggi i rischi di una radicalizzazione delle gang anche nelle città europee, dove il problema da emergente può diventare cronico anche per il fatto, più volte documentato, che il costituirsi di una di esse porta i giovani di altri quartieri a organizzarsi a loro volta per proteggersi dalle aggressioni: anche la conflittualità di strada, non meno di quella tra stati, induce forme di escalation sia sul piano organizzativo che nel grado di violenza.
Tuttavia, proprio questi aspetti relativi alle dimensioni organizzative delle gang – ma lo stesso discorso vale anche per il crimine organizzato in genere – sono quelli di gran lunga più trascurati dagli analisti, si tratti di accademici o di practitioner delle agenzie investigative e giudiziarie. Le gang seguono ciascuna una propria specifica path dependence, evolvendosi cioè subendo l’influenza di eventi, circostanze o scelte passate. Esse nascono in luoghi particolari, seguono un proprio ciclo di vita, dalla latenza all’istituzionalizzazione, che può consentire loro di evolvere da semplici agglomerati a veri e propri network transnazionali, come pure determinarne il declino: le gang sono anche un fenomeno legato al passaggio dall’adolescenza all’età adulta che può, quindi, arrivare a esaurimento in mancanza di un adeguato ricambio generazionale. Il destino criminale dei suoi affiliati non è segnato; ma dipende, piuttosto, dalle strategie di contrasto adottate dalle istituzioni e, in misura ancor più rilevante, dai fattori criminogenici presenti nel territorio. Le gang, infatti, sono in tutto e per tutto una delle forme assunte dalla crescente clusterizzazione dell’industria criminale, in un mercato dei beni e dei servizi illegali sempre più complesso e globale, e del tutto immune da flessioni cicliche della domanda. La loro diffusione nei quartieri urbani, oltre a essere un indicatore di un basso livello di integrazione e coesione sociale, è la dimostrazione della presenza di un milieu criminale talmente sofisticato da consentire ai gruppi maggiori (mafie e cartelli del narcotraffico) forme di esternalizzazione dei rischi, ovvero il subappalto alle gang delle mansioni – i reati di strada – che comportano più visibilità e, di conseguenza, maggiori probabilità di incorrere nell’azione repressiva da parte dello stato.
A ulteriore conferma dell’importanza del fattore organizzativo, le gang dimostrano una straordinaria capacità di accrescere la coesione intragruppo attraverso la creazione di proprie subculture, di ideologie, capaci di fornire agli affiliati un sistema di credenze e di regole, una visione del mondo che sia in grado di porli al centro dell’universo e al di sopra degli altri (non relegandoli, per una volta, ai margini e al fondo della scala sociale). Le costanti di queste subculture sono: la violenza, il maschilismo e la religiosità. La violenza ha un valore simbolico, al punto da essere adottata come rito di iniziazione: inflitta in prima persona alla reclute, o da queste esercitata a danno di ignari coetanei. Ma la violenza si rivela soprattutto una competenza individuale e una risorsa per il gruppo: un dovere professionale che, qualora non ottemperato, può suscitare scherno, dileggio o persino l’espulsione e la morte; e che, per questo, va corredato di tutti gli orpelli del coraggio, della reputazione e dell’onore. Il suo culto, per alcune gang, può spingersi fino al punto da produrre la completa deumanizzazione del “nemico”, l’individuo che con la sua sola presenza costituisce una sfida alla propria identità (e soltanto in seconda battuta, e non sempre, alla propria incolumità) e sul cui corpo diventa lecito accanirsi con inusitata e gratuita efferatezza. La gang, inoltre, si rivela funzionale a soddisfare l’esigenza di una (malintesa) virilità fomentata, da un lato, dalla cultura di provenienza ancora intrisa di patriarcalismo e, dall’altro, negata dalla società di accoglienza, che impedisce a questi giovani di diventare adulti assumendo i normali ruoli lavorativi e genitoriali. Certo, in alcune gang le donne sono presenti in numero rilevante e, a volte, arrivano a costituire propri gruppi autonomi in grado di sviluppare forti sentimenti di sorellanza. Eppure le ricerche dimostrano, anche in questi casi, che esse non riescono a emanciparsi dai ruoli imposti dai modelli patriarcali di famiglia, che si trovano per lo più costrette a giocare la propria sessualità alla ricerca di protezione e di status, e che quanto più si addentrano in questo ambiente dominato dai maschi, tanto più si espongono al rischio di aggressioni verbali e fisiche.
San Salvador, El Salvador, 1996
Gang members make a pact of revenge over the grave of a slain leader.
Copyright © Donna De Cesare,1996
Per quanto possa suonare un paradosso, la religiosità è l’elemento che, nella maggioranza dei casi, offre alle gang quel repertorio di regole e principi che serve a garantire la coesione interna. Una conferma empirica di ciò viene offerta dalla diffusione tra i membri delle gang dei più diversi paesi di tatuaggi a soggetto religioso, che coprono tutte le declinazioni della cristianità: da quella cattolica dei Barbudos napoletani, a quelle evangeliche protestanti delle cosiddette maras centro americane, a quella ortodossa delle gang russe. Il tatuaggio – a cui spesso si associano complessi codici linguistici e gestuali – soddisfa l’esigenza di marcare la propria differenza, il “noi” dal “loro”, e di rafforzare, al punto da renderla letteralmente indelebile, la lealtà al gruppo. Questo, d’altra parte, contribuisce a spiegare come la religione possa poi trasformarsi in alcune occasioni in veicolo di redenzione. Lo dimostra, in particolare, il caso dell’America centrale – area tra le più violente al mondo proprio per il dilagare delle maras – dove le chiese evangeliche pentecostali riescono a giocare un ruolo importante nel fornire un’alternativa agli adolescenti delle gang, utilizzando pratiche religiose e terapie di gruppo per reintegrarli nel contesto sociale e riformando i loro modelli di mascolinità di strada.
Quanto sia rilevante la dimensione subculturale delle gang, sebbene troppo sottovalutata nella capacità di alimentare negli adolescenti quel senso di identità e di appartenenza che il contesto istituzionale non riesce a garantire loro, lo dimostra ulteriormente il fatto che le street (e prison) gang hanno saputo dare origine a uno dei più importanti fenomeni della musica popolare del Novecento: il movimento rap e hip-hop, che si è rivelato capace di uscire dal ghetto, verrebbe da dire, per diventare fenomeno di massa, di controcultura e protesta. Non solo. Nato come prodotto delle gang nere degli Stati Uniti, è stato declinato negli ultimi decenni in ogni slang e si sta affermando come strumento di propaganda di brand criminali, come la Mara Salvatrucha 13 (MS-13) o la Eighteenth Street Gang (o Barrio 18), in grado di costituire propri gruppi di rap ispanico e produrne i video musicali, alcuni dei quali possono ormai vantare milioni di followers sui social media.
I due esempi appena citati non sono casuali, perché proprio la MS-13 e il Barrio 18 sono assurti a paradigma delle gang come minaccia globale. La prima, in particolare, è stata da tempo identificata come il nemico pubblico numero uno negli Stati Uniti – dove peraltro è nata, nei sobborghi di Los Angeles, costituita da giovani immigrati salvadoregni, come risposta alle altre gang ispaniche da tempo radicate in quei quartieri. A partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, dopo la fine della decennale guerra civile in El Salvador, l’amministrazione statunitense aveva avviato una politica di massicce deportazioni che aveva di fatto consentito alla MS-13 di realizzare una “colonizzazione di ritorno”, estesasi presto a buona parte dell’America centrale e, più di recente, all’Europa (in Spagna e Italia) e all’Australia. Questa strategia delle deportazioni, che già l’amministrazione Obama aveva continuato a implementare, ha ricevuto, tuttavia, nuovo impulso dal presidente Donald Trump, che ha evocato in maniera esplicita la MS-13 nel suo primo discorso sullo Stato dell’Unione per legittimare le proprie richieste di procedere all’espulsione di tutti i migranti irregolari e di completare la costruzione del muro con il Messico.
Per saperne di più
Auyero, J. et al. (eds.) (2015) Violence at the Urban Margins. Oxford: Oxford University Press.
Curry, G. et al. (2014) Confronting Gangs. Crime and Community. Oxford: Oxford University Press.
Hazen, J. M. e Rodgers, D. (eds.) (2014) Global Gangs. Street Violence Across the World. Minneapolis, MN: University of Minnesota Press.
Klein, M. W. et al. (2006) “Street Gang Violence in Europe”, European Journal of Criminology, 3:4, pp. 413-437. Disponibile su: http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/1477370806067911
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