Derrida e il desiderio di porre fine a ogni vita. La decostruzione, De Landa e la vivacità degli oggetti

Autori

  • Richard Iveson

DOI:

https://doi.org/10.13135/2284-4090/1570

Abstract

In questo saggio analizzo l’importanza, mai tramontata, della nozione derridiana di traccia, sostenendo che un impegno nei riguardi di questo “quasi-concetto” ci obblighi necessariamente a porci un’ulteriore domanda sul perché Jacques Derrida costruisca un confine abissale tra “esseri viventi” e “cose non viventi” – una dicotomia che manuel de Landa descrive come “sciovinismo biologico”. Mentre questo costituisce uno schema ancora più basico di quello che conferisce status ontologico eccezionale al solo animale umano, anche la nozione di traccia di derrida decostruisce tale dominante zoocentrismo. Anche se Derrida si rifiuta coerentemente di affrontarne le implicazioni, sostengo qui che è solo decostruendo la dicotomia vivente-non vivente che la prassi decostruttiva materialista e postumanista diventa possibile, in modo particolare quella che afferma il potenziale di bodyings veramente radicali. Questo saggio inizia con l'esame di due recenti tentativi – uno negativo (Bernard Stiegler) e uno positivo (Martin Hägglund)– di mettere alla prova i limiti che Derrida attribuisce alla traccia, per poi passare a esaminare in che modo una comprensione estesa della traccia si possa ricondurre ai recenti sviluppi del darwinismo filosofico e della biologia sintetica. In conclusione, leggendo Derrida alla luce del recente lavoro di Manuel De Landa, sostengo che solo una rigorosa decostruzione dello sciovinismo biologico ci permette di comprendere come il materialismo meccanicistico di darwin di fatto assicuri l’emergere di una storia non lineare, cioè di una storia di un mondo “completamente popolato” in cui ogni esistente è soggetto alla traccia, e quindi a ciò che Derrida definisce la modalità spettrale del “io non so”.

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Pubblicato

2016-06-15

Fascicolo

Sezione

Articoli