Elisabetta Fava

Confessione e congedo nel Requiem für Mignon


Il Requiem per Mignon di Robert Schumann nasce nell’estate del 1849, in coincidenza col primo centenario della nascita di Goethe, ma di fatto viene pubblicato poi a festa finita, nel 1851, e anche la prima esecuzione pubblica arriva con un po’ di ritardo, il 21novembre 1850, peraltro nella sede prestigiosa del Gewandhaus di Lipsia. Per questo lavoro Schumann estrapola il passo che nell’VIIIcapitolo dell’VIII libro degli Anni di apprendistato di Guglielmo Meister racconta il momento delle esequie per Mignon: ed è già indicativo che non abbia attinto a questo termine di“Exequien”, preferendo il termine più classico di “requiem”: anche se nel suo lavoro non c’è nulla del “requiem”tradizionale.

Interessante notare in primo luogo come Schumann reinterpreti liberamente, scostandosi da Goethe, proprio le indicazioni più strettamente musicali del testo. Goethe parla di quattro fanciulli (e in queste voci bianche c’è senz’altro una memoria della sua opera preferita, Il flauto magico), mentre Schumann non vincola la parte alle voci bianche, limitandosi a prescrivere due soprani e due contralti (tuttora le esecuzioni seguono indifferentemente l’una o l’altra via, voci bianche oppure voci femminili purché di timbro chiaro, adatto alla musica sacra o all’opera settecentesca). Va detto che probabilmente Schumann non intende affatto ripudiare le indicazioni goethiane; forse, anzi, il quartetto di fanciulli gli sarebbe stato particolarmente gradito anche per l’immediato riferimento fonico alla grazia dei tre genietti del Flauto magico, in cui peraltro sono i bimbi a confortare gli adulti e non viceversa come accade qui; ma la decisione di non prescrivere espressamente le voci bianche in partitura può derivare piuttosto da una considerazione pratica non senza precedenti: trovare voci bianche capaci di eseguire parti di una certa difficoltà non era sempre facile. Nel suo Hans Heiling (1833) Heinrich Marschner si era astenuto dall’imporre le voci bianche per i cori di gnomi proprio perché temeva che non ci fossero bambini all’altezza di eseguire bene le parti assegnate; pur esprimendo il suo rammarico per il compromesso,1 aveva quindi preferito ricorrere in linea di massima a voci femminili collaudate.

Viene poi a cadere un altro particolare. Goethe parla infatti di due cori invisibili, mentre Schumann ignora espressamente la prescrizione “invisibile”; nel riportare sulla partitura il passo goethiano che introduce la scena, il compositore interviene su questo testo in due soli particolari: la frase iniziale e la frase finale. Nel primo caso Goethe scrive: «Am Abend lud der Abbé zu den Exequien Mignons ein» («A sera l’abate li invitò alle esequie di Mignon»2), mentre Schumann evita il riferimento così puntuale a un personaggio citato in precedenza, e quindi estraneo al suo brano, e abbrevia: «Am Abend fanden die Exequien von Mignon statt» («Alla sera ebbero luogo le esequie di Mignon»). Quanto alla frase finale, l’unica variante a cui viene sottoposta consiste proprio nella soppressione deliberata dell’aggettivo «invisibile», sicché il testo risulta così mutato: «Die Gesellschaft setzte sich und zwei [cancellato: unsichtbare] Chöre fingen mit holdem Gesang an [...]» («I convenuti sedettero e due cori [invisibili] intonarono un canto soave»3). Così frequenti nell’opera romantica, le voci invisibili diventano problematiche e forse irrealizzabili in un lavoro destinato alla sala da concerto, a una visione già di per sé tutta interiore, e quindi Schumann vi rinuncia; per di più accorpa di fatto i due cori menzionati da Goethe in uno solo: interessandogli evidentemente di più la diretta contrapposizione soli-tutti di quanto potesse attrarlo la presenza di due grandi cori battenti che avrebbero troppo ridimensionato le voci solistiche, imponendo un gioco d’echi da cui forse il dialogo coro-solisti sarebbe stato indebolito e almeno in parte marginalizzato.

Requiem e conforto

Il 1849 è per Schumann un anno di enorme creatività: si parla spesso degli ultimi anni di Schumann come di un momento di crisi e quasi di paralisi inventiva, ma il riscontro concreto del catalogo smonta in parte questa tesi, come è stato autorevolmente mostrato:4 è in crisi come uomo, sempre più stanco e malato, è in crisi professionalmente, perché si costringe ad accettare lavori per i quali non è tagliato (direzione di coro o d’orchestra, organizzazione di concerti); ma il suo fervore d’artista non conosce crisi, tant’è vero che negli anni Quaranta Schumann scrive quattro volte tanto rispetto al decennio precedente. Certo, non basta un criterio quantitativo a smentire l’impressione che sia andato perso qualcosa che nei primi anni sgorgava con abbondanza inesauribile, ossia l’immediatezza melodica, ora sostituita da una musicalità più coperta e schiva, quasi nascosta fra le righe. Ma è anche vero che Schumann in questo periodo ha alzato molto l’obiettivo, si prefigge mete più alte, che qualche volta lo mettono oggettivamente in difficoltà perché lo costringono a maneggiare forme più ampie e rigorose. Questi sforzi culminano nella grande utopia dell’opera, incarnandosi in una serie di lavori tutti concentrati sulla soluzione dello stesso problema, ossia il rapporto con testi poetico-drammatici. La varietà dell’approccio è sbalorditiva, toccando scena e camerismo, grande e piccola forma: si incontrano via via in pochi anni i due oratori (Das Paradies und die Peri, 1843; Der Rose Pilgerfahrt, 1851), le musiche di scena per Manfred, il progetto delle Faust-Szenen che si protrae a lungo nel tempo, puntualmente testimoniato nelle sue varie fasi dagli appunti del Projektenbuch, le ballate corali degli anni Cinquanta, persino melologhi come Schön Hedwig, torsi di ouvertures per opere mai compiute (Hermann und Dorothea, Die Braut von Messina), naturalmente l’opera Genoveva. In questa messe generosa si incontra anche questo singolare Requiem für Mignon, seconda parte di un dittico asimmetrico, la cui prima parte (op. 98a) si compone di 9 Lieder und Gesänge per canto e pianoforte, mentre la seconda (op. 98b) richiede coro e orchestra: l’elemento unificante sta nella fonte comune, i Lehrjahre di Goethe, da cui provengono i testi di ambedue le sezioni.

Questo Requiem che non è un requiem si presta particolarmente a mostrare come Schumann cercasse in realtà una via personale al teatro, scavalcando i generi, fondendoli fra loro, superandone i limiti. L’idea schumanniana di “requiem” è quella che erediterà Brahms: e non dimentichiamo, a questo proposito, che anche Schumann fu sfiorato dall’idea di comporre un «deutsches Requiem» su parole di Friedrich Rückert ai tempi in cui scriveva la Messa op. 147:5 per quanto Brahms asserisse di non averne saputo nulla prima della stesura del suo stesso «deutsches Requiem»6 che pure ha, soprattutto nei brani di carattere più privato e meno monumentale, qualcosa del tematismo poco appariscente e come interiorizzato dello Schumann corale di questi anni. Per Schumann come per Brahms, “requiem” significa non una meditazione sulla morte, dell’aldilà, del castigo, ma una preghiera collettiva, un balsamo offerto coralmente a chi soffre: un pensiero rivolto più al dolore dei vivi che ai morti, più al senso della perdita che alla paura della morte, più alla condivisione del dolore che all’idea severa del giudizio. Ritroviamo quest’idea nella conclusione del Manfred, dove di propria iniziativa Schumann aggiunge un coro (questa volta sì fuori scena) che intona alcuni versi latini: rispetto alla chiusa tagliente di Byron, dove l’abate oltretutto insinua che Manfred sia dannato, Schumann addolcisce i toni, e immette senz’altro nella preghiera finale (per quanto in stile severo, con un doppio canone) una supplica, un pensiero di riconciliazione, lo stringersi della collettività intorno al dramma del singolo. Con un Requiem si concludono anche i Lieder op. 90 su testo di Lenau: si tratta in questo caso della traduzione tedesca di un’antica poesia cattolica, intonata con una melodia dolcissima, appoggiata fra l’altro sopra un tessuto d’arpeggi che allude esplicitamente all’arpa: arpa angelica, visione di paradiso, questa è l’atmosfera dei “requiem” schumanniani, resa tangibile anche in quello per Mignon non da ultimo proprio grazie alla presenza evocatrice dell’arpa (sostituibile eventualmente con arpeggi di viole). E anche in questo senso viene in mente Brahms: gli archi diventano una gigantesca arpa nel finale della Rapsodia per contralto, coro e orchestra, nella sezione finale che viene affidata al coro; analoga evidenza ha l’arpa nella Nenia da Schiller.7

Interrogativi irrisolti

Ma fra i motivi che stringono in unità gli ultimi anni di Schumann, ereditati d’altra parte dagli anni giovanili, c’è la meditazione sull’infanzia, già trattata nelle Scene infantili; negli anni Quaranta la nascita dei figli offre via via pretesto a questo tema, ma non è ovviamente soltanto questa ragione pratica a determinare l’interesse di Schumann; al quale Clara anni prima aveva detto: «A volte mi sembri come un fanciullo»8 e che con i bambini (con la stessa Clara quand’ancora era piccolina e Robert le raccontava le favole) si era sempre trovato benissimo. Non sarà un caso che nell’Album per la gioventù, cominciato nel 1848, ci sia un brano intitolato Mignon: un brano tutto molle d’arpeggi, che sembra flettersi come un giunco sotto il peso della nostalgia; mentre Kennst du das Land era stato pubblicato originariamente come brano conclusivo del Liederalbum für die Jugend op. 79. Mignon in fondo rappresenta l’archetipo del fanciullo ancora androgino, con le sue tristezze inspiegabili, la sua “veggenza” acutissima dei fatti della psiche, la fragilità interiore che quest’ipersensibilità comporta. Qui l’idea del fanciullo si sdoppia: sullo sfondo c’è la bimba morta, capostipite di tutta una serie di luoghi letterari sul compianto per la morte precoce, che si spingerà nel Novecento fino ai Kindertotenlieder e al Doktor Faustus;9 ma di fronte a noi ci sono quattro fanciulli vivi, che gli adulti devono confortare nel loro primo incontro con il mistero della morte. L’affettuosa premura con cui i fanciulli vengono esortati a staccarsi dalla compagna che non è più e a ritrovare la propria serenità è determinante a suggerire il tono della seconda parte: in alcuni punti l’impressione è di un sorriso forzato, di un’esortazione tanto più cordiale quanto meno convinta. Come nota John Daverio,10 la peculiarità del Requiem für Mignon è la «speranza nel futuro»: ce lo ricordano gli appelli degli ottoni nelle zone più positive del lavoro, quasi buccine che richiamino alla vita; e tuttavia se Goethe rideclina in questo passo l’esortazione alla Tätigkeit, allo stato di vita attivo, all’operosità, con tutto il valore morale che essa implica, non possiamo impedirci di avvertire nella sua resa musicale qualcosa di riuscito solo a metà: la fanfara maschera un vuoto, lacera un tessuto, alza la voce per coprire le obiezioni: in un lavoro dal respiro così interiore e privato sembra quasi un corpo estraneo, mentre nella pagina goethiana l’invito a vivere significava proprio interiorizzare il ricordo nell’umile laboriosità di ogni giorno, non fare della morte l’alibi per rinunciare alla vita. Quasi che Schumann abbia colto da un punto di vista intellettuale il messaggio positivo di Goethe e si sia impegnato a farlo passare anche nella musica; ma senza più aderirvi col cuore: in questo senso, uomo ancora attivo e pieno di idee, ma mutato nel profondo rispetto agli anni giovanili dei grandi slanci, in cui gli squilli esortativi dei Compagni di Davide affidati a una semplice tastiera pianistica suonavano ben più convinti, vitali, irresistibilmente trascinanti rispetto a questi, con il loro ottimismo un po’ recitato, un po’ “accademizzato”. Quasi che Schumann si annoverasse nel gruppo dei convenuti fra cui, come nota Goethe nella vera chiusa delle esequie – che Schumann non include nel suo testo – «nessuno diede ascolto alle confortanti parole: ognuno era troppo assorto nei propri sentimenti».11

Caratteristico del Requiem für Mignon è l’isolamento con cui emergono le tenere voci dei solisti, spesso nemmeno fortificandosi in quartetto, ma intervenendo a due a due o addirittura solisticamente. La semplicità del trattamento, che muove le parti di preferenza per terze, è comune al coretto d’angeli (Knabenchor) delle Faust-Szenen, alle quali fra l’altro rimanda una precisa citazione, o almeno una singolare coincidenza tematica che accomuna le due situazioni: nel momento in cui gli angeli si turbano alla vista del paesaggio rupestre e scosceso (Faust-Szenen, n. 3, bb. 130-13312), enunciano una frase identica a quella dei fanciulli del Requiem alle parole «Aber ach, wir vermissen sie hier» (Requiem für Mignon, bb. 166-169, partitura p. 2513).

Es. 1: Robert Schumann, Requiem
          für Mignon, bb. 166-169

Es. 1: Robert Schumann, Requiem für Mignon, bb. 166-169

Es. 2: Robert Schumann, Faust-Szenen, bb. 130-133

Es. 2: Robert Schumann, Faust-Szenen, bb. 130-133



In questo tono dolente c’è anche molto della scena (composta dopo il Requiem für Mignon) di Gretchen di fronte alla Vergine, ma anche del dolore impotente di Genoveva, così tenera e ingenua da sembrare una bimba, una Biancaneve portata a morire nel bosco per colpe non commesse. Proprio nella Genoveva, fra l’altro, Schumann aveva usato due cori invisibili proprio per consolare la protagonista e per così dire richiamarla alla vita dopo che è stata calunniata, ripudiata ed è stata a un passo dalla morte.

Un altro dato importante, che caratterizza tutta la sezione centrale del Requiem für Mignon, è la divaricazione responsoriale che oppone la scrittura fragile dei soli a quella poderosa del coro: di un coro che interrompe d’autorità le loro parole, pronunciando appena monosillabi: «Seht!», «Schauet hinan!». Il procedimento ricorda diversi cori di Johann Sebastian Bach, primo fra tutti quello d’apertura della Passione secondo Matteo («Kommt!», «Sehet!», «Wen?», «Was?»); e Bach fu oggetto di studio appassionato e persin tormentoso per tutti gli anni Quaranta; si è detto che abbia frenato la spontaneità creativa dello Schumann pianista, quello degli anni Trenta, ma certo ha reso possibile la stesura di pagine come il Requiem o le Faust-Szenen, e dà oltretutto ai cori schumanniani un’impronta più sfumata, più liricizzata, rispetto per esempio a quelli di Mendelssohn, dove pesa molto anche l’influsso händeliano. Si noti in questo caso anche il ricorso sistematico a un madrigalismo che dà particolare risalto alla contrapposizione fra i due gruppi, quello piccolo in lutto e quello più grande che deve esortare alla vita: senza essere identiche, tuttavia le frasi assegnate ai fanciulli sono discendenti, qualche volta anche con qualche semitono in funzione di lamento, mentre le esortazioni del coro maggiore sono tutte ascendenti, e ascendenti d’impeto, con intervalli diretti di quarta o di quinta: quasi a visualizzare lo sguardo chino dei piangenti e l’invito a guardare avanti, a rialzare la testa, da parte dei presenti.

Ripensare la prosa

Non abbiamo ancora citato un dato oggettivo del testo goethiano che può aver stimolato Schumann a collaudarne la tenuta musicale: ed è l’uso della prosa in luogo della più abituale poesia. Per Schumann non era una novità assoluta: già nell’oratorio Das Paradies und die Peri (1843) le rime erano molto lasche e i versi spesso liberi anche nelle arie; l’opera Genoveva (già terminata, benché ancora ineseguita, al momento di comporre il Requiem für Mignon) presenta a sua volta una certa libertà e flessibilità sia nei metri sia nelle rime, spesso assenti. Qui c’è un passo ulteriore, perché il testo è addirittura in prosa, e sta al compositore scegliere se organizzarlo in frasi simmetriche oppure conservargli la sua libertà, seguendone il flusso: che si compone naturalmente in una prosa organizzata e musicale, come potrebbe essere per la letteratura italiana quella dei Promessi sposi. Al disegno formale che ha in mente Schumann la prosa appare probabilmente come un terreno ideale: perché gli consente di intervenire con mano più libera nell’intreccio antifonale di coro e solisti. Il testo di Goethe alterna nettamente i quattro fanciulli ai due cori invisibili (che cantano a una voce, in modo tale da produrre un effetto stereofonico); la resa schumanniana usa quest’alternanza in principio, poi tende a far scavalcare al coro il recinto dei solisti, quasi a voler interrompere il loro compianto e sviare i loro pensieri dalla perdita e dal lutto; queste sovrapposizioni sono evidenti soprattutto nel passo citato «Seht die mächtigen Flügel doch an! (...) Schaut mit den Augen des Geistes hinan!» (bb. 174-215, partitura pp. 26-32), ma anche in altre occorrenze: per esempio nella sutura fra la seconda e la terza sezione (bb. 49-52, partitura pp. 9-10), dove Schumann dà l’illusione della ripresa, facendo ripetere ai fanciulli «Ach! wie ungern brachten wir ihn her!» su una frase quasi identica a quella che aveva aperto la sezione 2, ma spiazzandoci poi con l’irruzione inattesa del coro grande che dà l’impressione di toglier la parola ai solisti; e ancora nella sezione conclusiva, dove i confini cadono e le voci si riuniscono nella proclamazione finale. Nel testo viene introdotta qualche ripetizione, che serve quasi sempre proprio ad accentuare questo gioco di interruzioni, quasi fossero tentativi di toglier la parola ai piccoli inesperti alzando la voce d’autorità e interferendo nelle loro frasi. Si noti anche un minuscolo intervento di Schumann sul testo, in un punto che gli scombinerebbe l’arcata melodica e che ritocca dunque girando la frase in modo più letterario: «Tag und Lust und Dauer ist das Los der Lebendigen» diventa nella partitura «Tag und Lust und Dauer ist der Lebendigen Los».

D’altra parte la simmetria immaginata da Goethe si scompagina nella versione schumanniana anche per un’altra ragione, oltre agli sconfinamenti di un gruppo vocale nell’altro: e questa ragione sta nel fatto che il coro (in cui, ricordiamolo ancora, si raccolgono i due cori invisibili di Goethe) non canta a parti compatte, ma talora isolando le voci maschili (sezione 4, attacco: «In euch lebe die bildende Kraft», bb. 128 segg., dove si notino anche gli squarci a cappella), talaltra addirittura estraendo dal gruppo un unico corifeo (sezione 5, attacco: «Kinder, kehret ins Leben zurück!», voce solista di basso, bb. 233-251, partitura p. 33-35). Resta il problema della conclusione: per la quale Goethe aveva previsto che i quattro fanciulli si allontanassero materialmente dal luogo delle esequie per simboleggiare il loro ritorno alla vita («Die Kinder waren schon fern», i fanciulli erano già lontani).14 Schumann invece sceglie di fondere i quattro solisti con il coro; e quasi non ci accorgiamo che alle ultime battute i solisti hanno smesso di cantare, in realtà perché è cessato il loro dualismo rispetto alla collettività e sono tornati nel mondo diurno, in grembo al gruppo corale.

Dalle tenebre alla luce: forma in grande e miniature

Dell’intero passo del Meister la partitura accentua il carattere di elaborazione e superamento del lutto: dal Langsam, feierlich dell’esordio l’andamento va progressivamente accelerando, o per l’infittirsi del ritmo o per espresse indicazioni agogiche,15 fino a culminare nella quinta sezione, in tempo doppio rispetto alla precedente. A ciò si aggiunga la percezione di uno schiarirsi della tonalità: l’attacco è in do minore, per quanto mascherato nelle voci da uno di quegli inizi obliqui in cui Schumann è maestro;16 ma presto cominciano a intravedersi squarci in maggiore, finché la quarta sezione vira decisamente in fa maggiore, la tonalità su cui il brano andrà anche a terminare, dopo aver sfiorato anche le regioni del do maggiore (inizio della quinta sezione con l’uscita di un basso in veste di solista); e tutta la seconda fase “responsoriale” fra soli e coro fa leva anche su questa alternanza maggiore-minore. Infine, il Requiem comincia pianissimo e gli archi usano la sordina: già alla sezione 2 la sordina viene eliminata, e via via la sonorità si fa più corposa; gli squilli ovattati che hanno aperto il lavoro (oboi, fagotti e corni) torneranno trionfanti nella parte conclusiva, che anche sotto questo aspetto ricupera il tono più gioioso dello Schumann sinfonico. Va detto, tuttavia, che probabilmente il pregio maggiore di questa conclusione non sta nelle componenti di giubilo, che suonano in generale un po’ forzate, ma nei timidi residui di cordoglio, nelle ultime lacrime, nello sguardo all’indietro.

Se nella scrittura “in grande” la forma complessiva risulta così potenziata in una sorta di passaggio dalle tenebre alla luce, dal requiem all’inno, dalla scrittura funebre al trionfo della vita, la scelta di un testo importante come quello goethiano sollecita nel compositore una cura altrettanto affettuosa del particolare, che viene quasi miniato con l’aiuto di vere e proprie metafore armoniche o timbriche. Citiamo così il pronto intervento dei corni «gestopft», chiusi, a marcare per due volte la parola «Trauer», lutto: perché l’impiego dei corni chiusi aveva ormai assunto valore di presagio funesto, di rottura dell’idillio; e subito dopo, al contrario, il soffio di tenerezza umanissima su «ruhe das liebe Kind», riposi l’amata fanciulla, dove la condotta delle parti assume la disarmante semplicità dei cori popolari, con soprani e bassi per terze parallele e i contralti fermi a creare un pedale interno (bb. 33-35, partitura p. 7). Non passa inosservata la musicalizzazione dell’immagine delle ali possenti, «die mächtigen Flügel», che all’inizio invadono il campo con un battito convulso e sinistro, come ali di morte,17 per alleggerirsi poi gradualmente passando all’arpa sola (o viole, in alternativa), il che contribuisce al progressivo schiarirsi dell’atmosfera. Nella sezione 4, infine, dove si è già rilevato un provvisorio ritorno alla scrittura rarefatta e rallentata dell’inizio, spicca anche un sommesso ricordo della Nona Sinfonia di Beethoven: le parole «über die Sterne» fanno scattare l’allusione al passo «über Sternen muß er wohnen», creando per un attimo l’impressione del fiato sospeso, dello stupore; la scrittura si blocca per un paio di battute, le viole fremono in un tremolo, la dinamica scende al piano (bb. 158-65, partitura p. 24-25). L’impressione dura un attimo: è quasi la conversione di una citazione, o meglio di un’allusione, in una «innere Stimme», ossia l’omaggio nascosto nella sfera privata, fra le righe, accessibile solo a chi sa ascoltare in silenzio (come nella Humoreske, il «leiser Ton» riservato a chi non si ferma alla superficie, ma scruta nel profondo18). Un’altra finezza è dedicata alla parola «Unsterblichkeit», immortalità: parola chiave della sesta e ultima sezione, che dà l’aire all’apoteosi di speranza che chiude il brano. La sensibilità di Schumann, però, fa sì che l’apoteosi non scatti subito: la prima comparsa del vocabolo genera sbigottimento e sovverte per un attimo il tessuto ordinato e misurato del coro (bb. 301-304, partitura p. 40): l’intuizione degli spazi sconfinati dell’immortalità spalanca le linee finora così serrate del coro in un salto che pare vertiginoso, rispetto allo stile complessivo del Requiem für Mignon, così schivo, poco appariscente, fatto di particolari e di curve melodiche minime. Qui invece di colpo si produce un salto di decima discendente, e subito ne segue uno di undicesima ascendente; due battute di unisono sia alle voci sia in orchestra, come nei momenti critici degli oracoli e delle rivelazioni che il teatro d’opera aveva ormai codificato da tempo. Passa di nuovo, come un lampo, il ricordo dei formidabili unisoni della Nona di Beethoven, al passo «Seid umschlungen, Millionen»; e un divario armonico significativo, fra la triade di do maggiore di b. 298 (partitura p. 40, sulla parola «Blick») e quella di mi bemolle maggiore (ancorché in posizione di secondo rivolto) di b. 302, appunto su «Unsterblichkeit».


Es. 3: Robert Schumann,
            Requiem für Mignon, bb. 298-304

Es. 3: Robert Schumann, Requiem für Mignon, bb. 298-304


Ma a proposito di luoghi armonici inconsueti andrà ricordato l’inizio, obliquo come piace fare a Schumann (casi memorabili sono gli attacchi di Dichterliebe e della Humoreske): la fanfara iniziale dei fiati ha già stabilito la tonalità di base, do minore; le voci entrano in modo sorprendente, una dopo l’altra, formando una settima costruita sul quarto grado fa, che poi si comporta come un grande ritardo della settima di dominante, salvo che nessuna delle parti si muove per grado contiguo, producendo un effetto singolare di atomizzazione (bb. 2-4). E poco prima della chiusa la visione redentrice della bellezza («in der Schönheit reinem Gewande», bb. 284-291, partitura p. 39) crea piccole vertigini armoniche, composte in una progressione, ma non meno incisive: si susseguono una serie di accostamenti per terza, fa maggiore-re maggiore / sol maggiore-mi maggiore; poi quest’ultima triade mi-sol diesis-si viene interpretata come dominante di la minore; non è che un attimo, perché subito dopo (b. 294) sulla parola «Liebe» si forma una dissonanza inattesa e non preparata, la nona fa-la-do diesis-mi-sol.

Per concludere, vorrei ricordare l’intensità di alcune emersioni cameristiche (in particolare oboe e fagotto all’entrata del basso solista) e l’intreccio sorprendente di liederismo e coralità in questo Requiem, di cui Schumann non dimentica mai la natura privata, quasi domestica, tendenzialmente laica. Vero erede anche di questo aspetto sarà ancora una volta Brahms: anche in particolari timbrici come l’uso degli archi al posto dell’arpa, come accadrà per esempio nella Rhapsodie per contralto e orchestra; un’alternativa già prevista, come accennato, nel Requiem für Mignon (in mancanza dell’arpa, arpeggiano le viole). E tuttavia molti particolari, persino della strumentazione, germogliano in fondo dal terreno del Lied, dal perfezionamento delle doti allusive del pianoforte; il fondo cameristico di questo lavoro deriva anche da questo legame più con i generi strumentali profani che con le forme sacre. Non dimentichiamo che l’op. 98 è un dittico la cui prima parte comprende anche i canti dell’arpista; un arpista viandante è il protagonista di uno splendido Lied di Schubert, Nachtstück: prima di morire nell’abbraccio consolatorio della natura, l’arpista intona un ultimo canto, e il pianoforte lo accompagna con un tappeto d’arpeggi che di nuovo allude di proposito all’arpa e pare già evocare i cori angelici; il Lied si chiude sul gesto soave della natura che si china sul morente, per addolcirgli il trapasso, e le vibrazioni degli arpeggi continuano, pur in forma attenuata, a smussare gli angoli e addolcire ogni durezza: proprio nel senso intuito da Schumann per questo straordinario epicedio che trascende ogni definizione di genere.


1 Heinrich Marschner, lettera a Eduard Devrient, da Hannover 8 luglio 1831, in EDGAR ISTEL, Aus Marschners produktivster Zeit. Briefe des Komponisten und seines Dichters Eduard Devrient, «Süddeutsche Monatshefte», VII (1910), p. 778.

2 JOHANN WOLFGANG von GOETHE, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Adelphi, 2006, p. 515.

3 Ibidem.

4 In particolare le opere corali di Schumann hanno sollecitato l’interesse di JOHN DAVERIO, Robert Schumann. Herald of a “New Poetic Age”, New York, Oxford University Press, 1997 e prima ancora di ULRICH MAHLERT, Fortschritt und Kunstlied. Späte Lieder Robert Schumanns im Licht der liedästhetischen Diskussion ab 1848, München, Katzbichler, 1983 (Freiburger Schriften zur Musikwissenschaft, 13).

5 BERNHARD R. APPEL, Kritische Noten, Neue Schumann Ausgabe - Geistliche Werke 2: Missa sacra op. 147, p. XV; cit. in JOHN DAVERIO, Crossing Paths. Schubert, Schumann, and Brahms, Oxford-New York, Oxford University Press, 2002, p. 287, n. 66.

6 J. DAVERIO, Crossing Paths, cit., p. 186.

7 Sul ruolo che le sonorità dell’arpa e del corno ricoprono nei lavori corali di Schumann e di Brahms si veda DANIEL BELLER-MCKENNA, Distance and Disembodiment: Harps, Horns, and the Requiem Idea in Schumann and Brahms, «The Journal of Musicology», XXII, 1 (2005), pp. 47-89.

8 Lettera di Schumann a Clara, 17 marzo 1838: «[...] come un’eco delle tue parole di un tempo, quando mi scrivesti che “a volte ti sembro un fanciullo”», cfr. Briefwechsel Clara und Robert Schumann, herausgegeben von Eva Weissweiler, Basel-Frankfurt am Main, Stroemfeld-Roter Stern, 1984, Band I (1832-1838), p. 121.

9 Sull’argomento si può leggere FRANCO FERRUCCI, The Dead Child: A Romantic Myth, «MLN», CIV, 1 (gennaio 1989), pp. 117-134.

10 J. DAVERIO, Crossing Paths, cit., p. 186.

11 J. W. von GOETHE, Wilhelm Meister, cit., p. 518.

12 R. SCHUMANN, Szenen aus Goethes Faust für Solostimmen, Chor und Orchester, Klavierauszug von Woldemar Bargiel, Frankfurt [etc.], Peters, s.d. (E. P. 2400), p. 89.

13 Qui e in seguito il riferimento è all’edizione curata da Clara Schumann Robert Schumanns Werke, herausgegeben von Clara Schumann, Serie IX - Grössere Gesangwerke mit Orchester oder mit mehreren Instrumenten, N. 84: Requiem für Mignon für Chor, Solostimmen und Orchester op. 98b, Leipzig, Breitkopf und Härtel, s. d.

14 J. W. von Goethe, Wilhelm Meister, cit., p. 516.

15 Sezione 2: Etwas bewegter, (Un po’ più mosso); sezione 3: Lebhaft (Mosso), con inserimento prima di terzine, poi di quartine di semicrome all’arpa; dopo la sosta che apre la sezione 4 (Feierlich, doch nicht zu langsam), in cui i valori tornano a dilatarsi, ecco subito un Etwas bewegter (partitura p. 25, b. 166) che prelude al raddoppio della misura nella sezione 5, a cui farà seguito Etwas schneller (partitura p. 35, b. 252) e, nella sezione 6, “Lebhaft”.

16 Montando l’accordo una nota dopo l’altra, e prolungandone le singole note in modo che facciano sentire bene l’effetto di instabilità e di attesa, Schumann fa precedere l’accordo di tonica da una settima secondaria sul quarto grado (fa-la bemolle-do-mi bemolle) che in realtà fa da ritardo della settima di dominante, che a sua volta risolve (bb. 2-5).

17 La scrittura cambia all’improvviso, fiati e archi si associano in un effetto di tremolo (in realtà, terzine rapide di note ribattute) a cui il crescendo dà veramente qualcosa di incombente e minaccioso: sezione 3, partitura p. 10, bb. 51-56).

18 Come epigrafe della Humoreske Schumann inserisce una quartina di Friedrich Schlegel; il «leiser Ton» di cui parla questo motto si incarna nel lavoro di Schumann nella «innere Stimme» della seconda sezione.