Erik Battaglia

Le ragioni di una scelta concertistica

(note in margine a un programma-Mignon)

Con il catalogo ragionato dei Mignon-Lieder


Von wem sprichst du denn?
Von deiner Frau!
Von Eva?
Ich nannte sie Mignon.

Alban Berg, Lulu


Mignon è una lampadina che si accende spesso sul palco dei concerti di Lieder. Riceve corrente continua dal grande bacino del romanzo goethiano o dalle chiuse dei singoli canti pubblicati nell’opera poetica, e genera corrente alternata sotto forma di Lieder dall’intensi­tà variabile. Alcuni di essi chiedono il continuo apporto della corrente primaria (testo e contesto di Goethe) ed emanano luce e calore di quei filamenti alogeni ripetendone semplicemente lo schema, come fossero rulli Welte-Mignon, per così dire; altri brillano di luce propria, dopo aver debitamente trasformato il potente flusso della letteratura nella pura tensione musicale di quella che Eric Sams chiamava Liederatur, là dove parola, poesia e musica rinunciano all’oscurità dell’interpretazione e assurgono a “composizione con 26 lettere e 12 note riferite solo l’una all’altra”. In quel caso, le note musicali cessano di essere note a piè di pagina, e camminano sui propri gambi con la dignità che si confà a un linguaggio nuovo e autonomo. Altri Lieder, infine, tra quelli candidati al programma ideale, sono musica a (e di) basso consumo, e tuttavia possono regalare una luce calda e ben direzionata, adatta a sua volta a esaltare la bellezza delle strofe o di singoli versi goethiani senza alcuna pretesa di autonomia (nel duplice senso di durata e autosufficienza). Sono questi Lieder, in particolare, a chiudere propriamente il circuito, laddove gli altri aprono su nuovi, spesso indefinibili spazi. Un programma concertistico, se a sua volta vuole ambire a entrare nel circuito buono, deve presentare l’intero campionario, essere tavola astrologica oltre che planetario, presentare Mignon con l’abito blu della Vergine dello zodiaco oltre che con la chioma di Berenice. Ciò richiede prima di tutto una visione quanto più possibile complessiva, per non dire apertura di vedute: non possiamo, come fa la stessa Mignon, guardare «ans Firmament» solo «da quella parte», ma spaziare il più possibile nella volta celeste, concedere il giusto spazio alle star del Lied ma anche alle starlette della Romanza da camera (per tacere delle dive dell’Opéra, come quella di Thomas), al pathos ma anche al bathos; a meno, naturalmente, di non voler trasformare un programma in una tesi esclusiva, con i Lieder come mero apparato bibliografico dei nostri gusti e pregiudizi.

Nel preciso ambito qui affrontato, ad esempio, la sgualcita ma sempre pronta etichetta del pre- e post-Schubert non fa che relegare gran parte delle versioni musicali tardo settecentesche (in quanto a epoca o a stile) in una sorta di limbo, nell’attesa messiani­ca del líder máximo del Lied e dei suoi successori. Se intendiamo i Lieder di Reichardt, Zelter e Tomášek (tra gli altri) come pagine ingiallite di un Antico Testamento apocrifo, là nel loro cono d’ombra debolmente illuministico in attesa della rivelazione romantica, allora perdiamo il contatto con uno degli epicentri principali della magnitudo-Mignon. Né quei Lieder possono essere considerati dagherrotipi sbiaditi e privi di profondità, utili solo come termini di confronto negativi al fine di esaltare, se mai ve ne fosse bisogno, l’alta definizione a tre dimensioni dell’era Schubert-Wolf. Questo sarebbe un errore non solo di metodo, ma anche sostanziale, perché quei Lieder, ad esempio nel caso di Reichardt, non mancano di un implicito contenuto di verità (Wahrheits-Inhalt, come lo definiva lo stesso Reichardt prefigu­rando un concetto caro ad Adorno) e di modernità. Essi, infatti, furono composti con una funzione che oggi definiremmo multimediale, stampati in appendice alla prima edizione del romanzo goethiano così da dar voce (e poco pianoforte) alla musica idealmente evocata dallo stesso Goethe nell’inserire le poesie nella trama e nell’azione. Ciò prevedeva un preciso senso delle dimensioni e delle proporzioni: il collegamento ipertestuale non poteva essere un mero legame pretestuale e i piccoli Lieder dovevano conformarsi alla cornice simbolica e a quella reale – andamento in quarti, pagina in ottavo. Ma c’era anche un aspetto di sfida nel tentare di conferire fragile sostanza a ciò che per Goethe era semplice­mente un’idea di canzone, lasciata alla fantasia del lettore e a vaghe indicazioni sceniche («E cantò», «Tese l’orecchio e udì Mignon cantare», «dopo aver brevemente preludiato con dolcezza, intonò la voce e cantò»). Una sfida che invero è poi quella del compositore di Lieder in genere, sia pure senza una finalità pratica così definita. Questo ci permette di entrare, anche se solo in punta di piedi, nel dettaglio delle versioni musicali che potrebbero fornire un’ouverture al programma ideale. Eseguire in concerto i Mignon-Lieder di Reichardt non renderebbe giustizia a quel compositore, proprio perché qui egli agisce per così dire “sotto tutela” di autore ed editore del romanzo. Lieder pensati come esempi musicali non rappresentano un maestro che seppe creare poderosi recitativi goethiani come Prometheus e Iphigenia, quest’ultimo usato (e ricopiato) ancora da Schubert come modello per la forma peculiare dell’accompagnato liederistico. Sebbene Zelter fosse per lui un rivale, soprattutto in quanto suo “successore” alla corte e nelle grazie di Goethe, uno dei Lieder di Mignon del grande maestro berlinese può costituire al contempo un passo avanti verso l’identificazione del Lied moderno e un omaggio alle primissime, ma preziose intuizioni musico-verbali di Reichardt. Heiß mich nicht reden («Non chieder ch’io parli») è un testo a sé tra i canti di Mignon, perché nel romanzo viene recitato e non cantato, e dunque ha un carattere retorico assai più marcato. Al contempo, il suo principio generatore si nega alla musica e persino alla parola, come ci indica sin da subito il suo incipit, e proprio questa contrapposizione forzata tra pathos di un immaginario testo classico e invocazione al diritto del silenzio rende ardua la lettura musicale di questi versi. Non v’è da stupirsi se la strofa che permette ai compositori e agli interpreti una maggiore partecipazione alle emozioni poetiche sia la seconda, dove Goethe richiama con forza numinosa l’ineluttabilità del corso della natura in contrasto con le convenzioni tutte umane del dovere e della morale. È per questo motivo che, di solito, i Lieder composti su questa poesia iniziano con musica di grande ma convenzionale bellezza e proseguono ricercando un analogon musico-verbale più pregnante. Questa prassi ha origine proprio con Reichardt, che per i versi

Zur rechten Zeit vertreibt der Sonne Lauf
Die finstre Nacht, und sie muß sich erhellen;

Der harte Fels schließt seinen Busen auf,

Mißgönnt der Erde nicht die tiefverborgnen Quellen.
1

elabora per la prima volta quel disegno di vuoto raddoppio o nude ottave che persiste per quasi un secolo sino alla versione di Hugo Wolf, come vero e proprio simbolo grafico-sonoro di pura energia che muove dal basso verso l’alto o nel puro canale d’ottave, o di timbro scuro che si rischiara. Di certo è Reichardt (es. 1) il modello di Zelter (es. 2) quando si tratta di intonare il primo verso di questa seconda strofa:

Es. 1: Johann Friedrich Reichardt, Heiß mich nicht reden (1795-96), bb. 16-21

Es. 1: Johann Friedrich Reichardt, Heiß mich nicht reden (1795-96), bb. 16-21




Es. 2: Carl Friedrich Zelter, Heiß mich nicht reden (1795), bb. 15-17

Es. 2: Carl Friedrich Zelter, Heiß mich nicht reden (1795), bb. 15-17


In seguito, Schubert (es. 3) darà veste accordale a un tema assai simile nell’andamen­to, mentre Wolf sposterà al pianoforte il cupo incedere di ottave lasciandolo interagire con l’incerto procedere della voce (otto suoni diversi, es. 4):

Es. 3: Franz Schubert, Heiß mich nicht reden, D 877 n. 2 (1826), bb. 13-16

Es. 3: Franz Schubert, Heiß mich nicht reden, D 877 n. 2 (1826), bb. 13-16

Es. 4: Hugo Wolf, Heiß mich nicht reden (1888), bb. 10-12

Es. 4: Hugo Wolf, Heiß mich nicht reden (1888), bb. 10-12

Anche nel percorso “in presa diretta” di un concerto liederistico, indicatori simili aiutano il pubblico a non smarrirsi e a non considerare il raffronto tra le diverse versioni come un tour di Lieder privo di tour-leader e i grandi lamenti di Mignon come lamenti d’Arianna senza filo conduttore. Lo stesso vale per gli interpreti, che nel caso dei Lieder di Mignon hanno il problema aggiunto di definire il proprio livello di identificazione con il personaggio parlante. Il bel Lied di Zelter, ad esempio, iniziava con toni da cavatina sentimentale, così:

Es. 5: Carl Friedrich Zelter, Heiß mich nicht reden (1795), bb. 1-4

Es. 5: Carl Friedrich Zelter, Heiß mich nicht reden (1795), bb. 1-4

L’esecuzione non può che assecondare questo senso di patetico distacco, con i tratti nobiliari esaltati dall’altero portamento (su «reden»). Usando la paradossale categoria musicologica dell’anticipazione, si potrebbe dire che quella curva anticipi o precorra un luogo schumanniano almeno quanto la modulazione alla sopratonica minore su «Pflicht» («dovere», es. 6). Poiché in Mignon giocano un ruolo essenziale il senso di colpa e il senso del dovere, e gli interpreti sono chiamati a mediare quel fattore psicologico del personaggio anche nella sua trasfigurazione musicale, la realizzazione liederistica di quel sostantivo merita qui qualche parola di approfondimento. C’è in Zelter un tono di stanca rassegnazione nel modo e nel mood minori che accolgono quella parola, accompagnando poi con già schubertiana malinconia i versi della sognata apertura («Ich möchte dir, ecc.»).

Es. 6: Carl Friedrich Zelter, Heiß mich nicht reden, bb. 7-10

Es. 6: Carl Friedrich Zelter, Heiß mich nicht reden, bb. 7-10

Dimenticando per un attimo l’ideale ordine cronologico-stilistico delle versioni, quella cupa tonalità cui muove la frase di Zelter getta un ponte (anche modulante, verrebbe da dire) verso il Lied del tardo Schumann: anche là la parola «Pflicht» risuona in si bemolle minore, benché le premesse siano radicalmente diverse e il grado di partecipazione emotiva degli interpreti debba essere di molto accresciuto. Il disperante recitativo drammatico in do minore del Lied op. 98a n. 5, uno dei migliori luoghi del ciclo schumannia­no su versi dal Wilhelm Meister (spesso sconvolgente solo per il disordine musicale che vi regna), ha buon gioco nella manifestazione di risolutezza compulsiva di Mignon. Il proposito di tacere – di per sé immotivato se non perché dettato da una norma, dalla convenzione moralistica del dovere – ha come analogon uno straniamento delle risoluzioni armoniche e dei gradi di consapevolezza. In tal senso, lo «schweigen» vige solo in funzione di un condizionamento esterno, e non merita una cadenza perfetta, bensì una programmati­ca cadenza d’inganno (poi perfezionata), là dove il motivo armonico si fa anche etimologico (es. 7).

Es. 7: Robert Schumann, Heiß mich nicht reden, op. 98a n. 5 (1849), bb. 0-7

Es. 7: Robert Schumann, Heiß mich nicht reden, op. 98a n. 5 (1849), bb. 0-7

Poi, nello spazio di due battute, la musica compie lo stesso movimento armonico del Lied di Zelter, e dalla nuova tonica di la bemolle maggiore va a risolvere sul si bemolle minore di «Pflicht» con la sua drammatica frenesia (ottavi ribattuti) e il suo forzato gesto di stizza (sf, tripla acciaccatura alla mano sinistra come simbolo vivente del gesto stesso). Tra questi due esempi (Zelter e Schumann), la lettura di Schubert, così come il suo senso del dovere in musica, si pone in una giusta via di mezzo: curiosamente – verrebbe da dire – viste le convinzioni progressiste dell’intellettuale Schubert, eclettico e già europeo quanto a larghezza di vedute. Dopo che il suo incipit ha discretamente mosso i piedi poetici al passo prediletto del dattilo (o “Todesrhythmus”), il sostantivo-chiave «Pflicht» non apre porte su nuove dimensioni interpretative, ma anzi si chiude in sé nella spenta accettazione di un fato preordinato (es. 8).

Es. 8: Franz Schubert, Heiß mich nicht reden, D 877 n. 2 (1826), bb. 7-8

Es. 8: Franz Schubert, Heiß mich nicht reden, D 877 n. 2 (1826), bb. 7-8

Se anche in musica è dato cogliere il declino della borghesia e la crisi nominalistica dei valori, allora, nel Lied di Wolf del 1888, l’emblema di questo declino cui il mondo non è ancora preparato è l’accordo dissonante con ritardo non preparato che completa il nostro campionario dedicato alla parola «Pflicht» (e al relativo concetto). Confrontato con il quieto accordo di Schubert, il gesto violento di Wolf (es. 9) è quasi un gesto di liquidazio­ne nei confronti dell’imperativo morale kantiano.

Es. 9: Hugo Wolf, Heiß mich nicht reden (1888), bb. 3-4

Es. 9: Hugo Wolf, Heiß mich nicht reden (1888), bb. 3-4

È per questo che nel Lied che io stesso ho composto su questi versi, come commento musicale a margine del programma ideato con Valentina Valente per l’Unione Musicale, ho costruito l’incipit sulla sovrapposizione di quei due accordi agli antipodi (es. 10).

Es. 10: Erik Battaglia, Heiß mich nicht reden (2010)

Es. 10: Erik Battaglia, Heiß mich nicht reden (2010)

Degno di nota, nella resa della prima strofa, è anche il modo in cui Wolf aggira il ritmo dattilico di Schubert (tramite una sincope sul verso dell’incipit) e dà profondità aggiunta alla parola «Geheimnis» («segreto»). Gli accordi che accompagnano la terza maggiore del canto (es. 9,), con la loro ambigua enarmonia, prefigurano la tecnica straussiana di definizione di termini o concetti tramite la giustapposizione di triadi distanti, ma si ricollegano ad esempio anche all’armonizzazione wolfiana del verso dei draghi nella sua versione della Ballata di Mignon. A questo proposito, è necessario ricordare che la qualità significante di molte soluzioni musico-verbali dei grandi “Maestri del Lied” è spesso data dal riferimento interno alla propria opera, proprio come nel caso dei sommi scrittori che fanno assurgere a universale la loro rievocazione poetica o narrativa di frammenti di esperienza personale, di per sé privi di peculiarità. Nel caso delle citate battute del Lied di Wolf, ad esempio, una porzione aggiunta di significato è data dalla coincidenza dell’accordo di «Pflicht» con quello che, nel primo Lied del Suonatore d’arpa, conferisce disperante intensità alla parola «Pein» («pena»). Ciò è particolarmente rilevante, giacché la consegna al silenzio di Mignon è strettamente legata al senso di colpa dell’Arpista. Nel ciclo di Wolf, che sottopone i personaggi goethiani a una sorta di seduta psicanalitica ante litteram, sono molte le “associazioni libere”: ad esempio, le ottave anelanti della Ballata riprese in Nur wer die Sehnsucht kennt; molti gli “atti mancati”: nello stesso Lied l’accordo di settima prima della ripresa (anch’esso proveniente dalla Ballata, subito prima di «Dahin! Dahin!») che non risolve o risolve altrimenti; per non parlare del “metodo catartico” usato da Wolf per portare in superficie le varie pulsioni espresse da Mignon in particolare, e già perfettamente identificate da Hegel2 prima che i vari termini usati fra virgolette in queste poche righe fossero definiti da Freud e Breuer (che fu un sostenitore del giovane Wolf).

Naturalmente, un concerto di Lieder non può assumere esplicitamente un carattere terapeutico, ma di certo v’è un forte elemento di sublimazione artistica delle pulsioni represse, sia nei grandi Lieder di Mignon da Schubert in poi sia nella loro potenziale resa vocale e pianistica. La poesia che maggiormente solca, e favorisce, questo piano di lettura, è Nur wer die Sehnsucht kennt, non fosse altro perché il suo esprimere una comunanza e una sia pur rudimentale empatia nel previsto “duetto irregolare” tra Mignon e l’Arpista viene spesso trasceso nel solipsismo sdoppiato dei Lieder solistici. Questa contraddizione era stata quantomeno notata da Reichardt, che aveva composto sia un duetto (sin troppo regolare), sia un Lied per voce sola; tra gli autori del ciclo completo, Anton Rubinštejn opta per la sola versione a due voci; Schubert (autore di ben sei versioni) va oltre e crea persino una sorta di madrigale a 5 voci maschili, prima di toccare il vertice in questo particolare certame liederistico con il sublime canto elegiaco-drammatico dell’ultima versione e lo struggente dialogo ipnotico del contemporaneo duetto; Wolf crea di fatto un duetto ideale nel far interagire il canto anelante di ottave pianistiche con la declamazione quasi isterica del canto. Anche quando la lettura delle dinamiche psicologiche non è raffinata come in Schubert e Wolf, tuttavia l’interprete dei Lieder ideali è chiamato a dar sfogo controllato delle pulsioni elementari che vi albergano, a cominciare dalla «smania» con cui andrebbe correttamente (anche se non precisamente) tradotto (e dunque eseguito) il celebrato sostantivo «Sehnsucht», ad esempio così:3

Solo chi smania di desiderio
comprende le mie pene!

Sola e privata

di ogni gioia

guardo il firmamento

verso meridione.
Ah, chi mi ama e conosce
è distante, lontano.

Ho le vertigini, m’ardono
le viscere.

Solo chi smania di desiderio

comprende le mie pene!
4

In tal senso, c’è un aspetto scenico nell’espressione musicale delle emozioni di Mignon che traspare da versioni non imperfettibili, ma rapsodiche e spontanee. Dei Lieder di Loewe e Schumann, ad esempio, si potrebbe dire che essi non rispettano l’unità poetica e drammatica della poesia, con ripetizioni indebite (quasi l’intera poesia in Schumann), cambi di tempo e altri procedimenti entropici. E nel far questo, soprattutto nel caso di Schumann, di certo non prefigurano uno stile nuovo, né ambiscono a rompere gli schemi del Lied, come spesso si sostiene: semplicemente stentano a trovare la via, o hanno smarrito quella maestra, com’era successo del resto a Beethoven (autore di ben quattro versioni dichiaratamente poco riuscite), a Zelter e al primo Schubert con le loro versioni multiple. Tuttavia, nel liberare tanta energia priva di una precisa mediazione musico-verba­le (quella, per intenderci, dell’anno d’oro di Schumann, o di Brahms e Wolf passim), quei Lieder svelano la piega per così dire pre-espressionista del personaggio poetico e forniscono nuovi, inattesi spunti per la formazione di un programma il più possibile rappresentativo. Il senso di vertigine che coglie Mignon («Es schwindelt mir, ecc.»), alla cui realizzazione Schubert aveva dedicato anni di esperimenti di scrittura e gesto, e che in Wolf si farà grido prorompente, in Loewe e Schumann pervade gran parte del Lied sotto forma di onde cariche di ritardi e dissonanze. In tal modo, la giovane donna con il suo turbamento e i suoi presagi di morte assume una gestualità e tratti che non sono più quelli del teatro di parole del Lied da Mozart in poi, ma sconfinano in quella che un giorno sarà estetica cinematogra­fica. Il canto, in un certo senso, è attore delle frasi musicali e delle parole poetiche, ma al contempo è come se reagisse paradossalmente a quella che poi verrà definita “musica extra-diegetica”. Giovane donna, vertigini, passato misterioso, pulsione di morte, forza seduttiva, musica struggente (“struggimento” è un’altra delle possibili traduzioni di «Sehnsucht»): non è un caso se i frangenti dissonanti di Lieder come quelli di Loewe (es. 11) e Schumann (es. 12) tornano, mutatis mutandis, nella colonna sonora di Vertigo composta per Hitchcock da Bernard Herrmann.

Es. 11: Carl Loewe, Nur wer die Sehnsucht kennt, op. 9, III, n. 5 (1818), bb. 24-31

Es. 11: Carl Loewe, Nur wer die Sehnsucht kennt, op. 9, III, n. 5 (1818), bb. 24-31

Es. 12: Robert Schumann, Nur wer die Sehnsucht kennt, op. 98a n. 3 (1849), bb. 17-19

Es. 12: Robert Schumann, Nur wer die Sehnsucht kennt, op. 98a n. 3 (1849), bb. 17-19

Questa che parrebbe una provocazione (e in parte lo è) ha anche una sua ragion d’essere musicologica, poiché il grande compositore5 di origine russa s'ispirava dichiarata­mente a quella musica di fine secolo dove l’emancipazione delle dissonanze (evidente negli esempi proposti) è condotta alle estreme conseguenze. Herrmann fu un buon conoscitore e un fine direttore di Wagner, di Elgar e delle opere del primo Schönberg, e la sua partitura per Vertigo (o La donna che visse due volte) trasforma soprattutto la prima Madeleine (con tanto di ambiguità spagnoleggiante) in personaggio musicale tardo-romantico: una categoria tanto vasta da racchiudere anche i personaggi liederistici di Loewe e Schumann. Il suo famoso tema (es. 13), costruito su due accordi distanti con ritardi non preparati (batt. 3-4), viene sviluppato (anche in chiave tristaniana) con il frenetico accavallarsi di fitte dissonanti che in Schumann si manifesta con discrezione ma che nel Lied di Loewe (composto ben trent’anni prima, nel 1818) è ragione stessa del procedimento musicale.

Es. 13: Bernard Herrmann, Vertigo, tema (1958)

Es. 13: Bernard Herrmann, Vertigo, tema (1958)

In altri termini, naturalmente, il Lied di Schumann ebbe anche una discendenza più facilmente riconoscibile, e il grande arpeggio che apre il sipario a mo’ di levare che coincide con il prendere fiato del cantante diventerà un bel luogo comune del Lied, da Wie Melodien zieht es mir di Brahms a Die Nachtigall di Berg. Per certi versi, poi, è sempre da Lieder in cui si preferisce l’espressione diretta delle emozioni al loro distillato nella “soluzione” musico­-verbale (come quelli di Loewe e Schumann, o come la versione di Schubert del 1816) che derivano anche le letture di scuola russa, forse con l’eccezione di Anton Rubinštejn e della sua ardua mediazione tedesco-italiana. Con il suo Lied del 1869, Čajkovskij crea una hit di fama planetaria, confermando, se mai ve ne fosse bisogno, che il successo è spesso direttamente proporzionale alla vaghezza dei riferimenti culturali e alla mancanza di scrupolo filologico. Seguendo solo il filo logico della propria ispirazione, il maestro russo crea nondimeno una memorabile variabile patetica del canto di Mignon (tanto lontano dalla dimensione originale da essere aperto anche a interpretazioni maschili), unica versione in modo maggiore tra quelle assurte a repertorio corrente, unica a disegnare il verso dell’incipit con curve di grandi intervalli (una settima per «Nur wer») e non con il consueto tratto minimo di toni o semitoni (sebbene già Reichardt, Zelter e Schumann avessero assegnato patetici salti di sesta a «die Sehnsucht»). Qui la smania si fa «Ностальгия», nostalghia, senza remore; ma in questa metamorfosi stilistica c’è una parte di calore affermativo di cui gli interpreti dovrebbero far tesoro anche quando affrontano le letture più prossime a Goethe e alla sua tradizione. Se invece vogliono portare alle estreme conseguenze quella particolare deriva stilistica, allora il Lied di Medtner (unica versione comunque accettabile composta dopo Wolf) è la scelta giusta, con la sua raffinata ma artificiosa mediazione di cantabilità russa e armonia modale, slancio lirico e tono confidential, dolore cosmico down to earth e società di consumo (es. 14).

Es. 14: Nikolaj Medtner, Nur wer die Sehnsucht kennt (Ach, kto ljubil, pojmet), op. 18 n. 4 (1910), bb. 0-11

Es. 14: Nikolaj Medtner, Nur wer die Sehnsucht kennt (Ach, kto ljubil, pojmet), op. 18 n. 4 (1910), bb. 0-11


Il fatto che il personaggio di Goethe (anche in quanto figura poetica) sia potenzial­mente tutto questo e molto altro è segno della sua modernità, ma è anche il campanello d’allarme che deve risuonare nella mente degli interpreti (e soprattutto della cantante) allorché pretendano di “identificarsi” con Mignon e non di farsi portatori del superamento (in senso hegeliano di conservazione e avanzamento) costituito dall’alterità del messaggio liederistico. In tal senso, vorrei chiudere questo rapido excursus nel firmamento dei Mignon-Lieder “dalla parte degli interpreti” affrontando il caso-limite della Ballata di Mignon (Kennst du das Land?). È un caso che potremmo definire paradigmatico, perché Goethe sembra qui preparare il terreno alle future speculazioni dell’estetica musicologica. La questione si può sintetizzare per punti:

Il contesto del romanzo dovrebbe quindi facilitare le cose al compositore e agli interpreti: in parte ciò è forse successo, poiché proprio la versione di Beethoven (con quel piglio sonatistico che deriva dall’affinità con la Sonata op. 78) sembra rispettare la «solenne magniloquenza» con cui, secondo Goethe, Mignon iniziava ogni strofa; la versione di Wolf sembra invece realizzare al meglio quella «irresistibile Sehnsucht» del «Dahin! Dahin!» e la qualità cupa della terza strofa (oltre a recepire il suggerimento strumentale della Zither evocandola poi nel terzo Lied, So laßt mich scheinen). Ma, a ben vedere, il confronto con il romanzo e la chiosa critica di Goethe non fanno che complicare le cose. Mignon infatti canta la sua canzone in italiano, poi Wilhelm, dopo essersela fatta «ripetere e spiegare» più volte, la traduce in tedesco, vanificando «l’innocenza infantile dell’espressione» originale, su cui tanto insistono i commentatori (Goethe per primo) alla ricerca di un’analogia musicale di quello stato psicologico. Ogni discorso sul personaggio Mignon è superato, poi­ché la poesia musicata tante volte è già alla fonte un’elaborazione dichiaratamente accademica di un originale virtuale: è, in pratica, la ballata pubblicata nei Gesammelte Werke (come fosse “a cura di Wilhelm Meister”), e il compositore ha tutto il diritto, con buona pace dei futuri musicologi, di musicarla ignorando (o lasciando latente) l’humus del roman­zo. Mentre la musicologia rimane nel laccio dell’ambiguità goethiana, e trova spesso impossibili mediazioni tra romanzo, personaggio, metro, fedeltà al testo, ecc., la produzione di Lieder spesso eccelsi su questo testo realizza il senso musicale indicato da Goethe con il complesso della sua costruzione lirico-drammatico-epica. L’inadeguatezza insita in ogni commento critico al Lied, derivante dalla forzatura verso il linguaggio di parole, imposta a una forma che combina i minimi passaggi di due mondi semantici, si trasforma volentieri in vere e proprie gaffe. Friedländer, ad esempio, critica la versione di Spontini (che di certo merita ogni altro biasimo) perché mancherebbe di «nostalgia tedesca»: ma non è forse Goethe a dirci che Mignon è italiana, canta in italiano e si riferisce con nostalgia all’Italia? Semmai, è curioso che tanto Schumann quanto Wolf abbiano talora conferito all’italianità di Mignon un più generico tratto mediterraneo, senz’altro più spagnolo che nostrano. In Schumann ciò avviene per via di quel riferimento interno di cui parlavamo all’inizio, e di certo il costante riferimento, nel ciclo op. 79, a temi e armonie del suo Spanisches Liederspiel (vedi il motivo pianistico accennato e poi abbandonato in So laßt mich scheinen, che deriva dal duetto spagnolo Bedeckt mich mit Blumen; il rapporto tra il preludio del canto dell’Arpista Wer nie sein Brot e quello di In der Nacht, ecc.)7 è anche segno di quella confusione musico-verbale (ma non musicale) che nel 1849 è già tragicamente evidente. In Wolf questo difetto di settaggio del navigatore stilistico è meno esplicito, ma il riferimento a un latente carattere iberico è esterno alla sua opera, come nel caso della sfumatura di danza spagnola che Erik Werba percepiva nel Lied So laßt mich scheinen.

Lo stesso Goethe (nella sua veste spesso improvvisata di musicologo ante litteram) biasima Beethoven per il tono solenne del suo incipit, che peraltro risponde perfettamente alla descrizione romanzesca da lui stesso fornita; cosa avrebbe detto il poeta del grande incipit wolfiano, che supera con virtuosismo di fraseggio la rigidità metrica di tutti gli altri, distribuendo opportunamente il carattere interrogativo su tutta la strofa, ma al contempo richiama la snervante e non certo infantile cantabilità sinfonica dell’Ottava Sinfonia di Bruckner? È chiaro quindi che la lettura critico-interpretativa deve avvenire a un livello extra-letterario e partire da un presupposto esclusivamente liederistico, lo stesso su cui do­vrebbe fondarsi una buona esecuzione musicale dei Lieder: nessun contenuto letterario pre-musicale, nessun contenuto musicale pre-letterario.

Solo quando una maionese impazzisce siamo costretti (spesso con disappunto) a considerarne i diversi ingredienti come singolarità invece di gustarne l’equilibrata combinazione. Lo stesso vale per un buon Lied. La latente follia di Mignon (così come poi quella patente di Ofelia nei Lieder di Strauss), il suo tratto infantile trasceso in una tragica maturità precoce, eros e thanatos nelle sue pulsioni; e, sul versante musicale, gli elementi drammatici che convivono con l’espressione lirica, l’evoluzione parallela del materiale armonico-formale e di quello musico-verbale, l’equilibrio tra soggetto lirico e personaggio musicale (o cantante) sono solo alcuni degli ingredienti in gioco. Ma la lampadina Mignon si accenderà propriamente solo se ciascuno di quei flussi, una volta decodificato alla fonte, viaggerà a velocità C ben convogliato nel canale unico dell’intelligenza creativa del composi­tore per consegnarsi poi alla fotosintesi dell’interpretazione vocale e pianistica e alla fruizione del pubblico. In tal modo quella lampadina continuerà a lungo a illuminare palco e platea delle serate di Lieder.



Catalogo ragionato

Il titolo tra parentesi viene fornito solo quando si discosta da quelli canonici (Mignon, Lied der Mignon), dai numeri ordinali nell’ambito dei cicli (Mignon I, II, III), dal semplice incipit. Titoli tra parentesi in lingua diversa dal tedesco indicano versioni non eseguibili in lingua originale. Per i Lieder di cui è ignota la data di composizione si riportano le date di nascita e di morte del compositore. Le versioni tra parentesi quadre sono composizioni non liederistiche (arie da opere, pezzi a più voci senza accompagnamento). M indica Lieder o frammenti inediti.

Mignon (Mignon), 1783

Johann Friedrich Reichardt, 1795 (Italien); Carl Friedrich Zelter, 1795; Franz Anton Maurer (1777-1803); Georg Jakob Ernst Häusler, 1799; Andreas Romberg, 1799; Ludwig Abeille, 1805; Friedrich Götzloff, 1806; Heinrich Leberecht August Mühling, 1806; Ludwig van Beethoven, 1809 (op. 75 n. 1; trascr. per solo pf. di F. Liszt, 1849); Friedrich Kuhlau, prima del 1810; Louis Spohr, 1810 (op. 37 n. 1); Helene Liebmann, 1811; Helene Riese, 1811; Carl Friedrich Zelter, 1812 (2a vers.); Carl Moltke, 1814; Antoni Radziwiłł, 1815; Franz Schubert, 1815 (D321); Carl Friedrich Zelter, 1817 (3a vers.) e 1818 (6a vers.); Francesco Pollini, 1818 (Sai qual’è l’amena sponda); August Ferdinand Häser, 1819; Amadeus Wendt, 1819; Ignaz von Mosel, 1820/21; Václav Tomášek, 1822; Fanny Hensel, 1822 (Sehnsucht nach Italien); Christian August Pohlenz, 1824; Gustav Reichardt, 1824; Carl David Stegmann, 1825; Karl Gollmick, 1828/29; Gaspare Spontini, 1830; Leopold Lenz, 1832; Bernhard Klein, 1836; Joseph Klein, 1836; Oswald Lorenz, 1837?; Stanisław Moniuszko, 1846 (Wezwanie do Neapolu); Robert Schumann, 1849 (op. 79 n. 29); Moritz Hauptmann, 1852; Franz Liszt, 1842 (trascr. per solo pf., 1843), 1856, 1860 (3a vers., orch. 1860); [Ambroise Thomas, 1866 (Connais-tu le pays?), da Mignon]; Theodor Bernhard Sick (1827-1893; v., vl, vlc., pf.); Leopold Damrosch (1832-1885); Henri Duparc, 1869 (Romance de Mignon); Zdeněch Fibich, 1870; Anton Rubinštejn, 1870 (op. 91 n. 4); Pëtr Il'ič Čajkovskij, 1874 (op. 25 n. 3); Gustave Leon Huberti (1843-1910); Alphons Diepenbrock, 1884; Hugo Wolf, 1888 (orch. 1890 e 1893); Othmar Schoeck, 1903 (framm., M); Alban Berg, 1907 (solo 1a strofa); Arnold Schönberg, 1907 (framm., M); William Harold Neidlinger, 1907; Bernard Reichel (1901-1992); Ralph Shapey, 1995 (Beloved, solo 1a strofa).

Mignon (Heiß mich nicht reden)
Mignon (Non chieder ch’io parli), 1785

Johann Friedrich Reichardt, ed. 1795-96; Carl Friedrich Zelter, 1795 e 1808 (framm. compl. L. Landshoff, 1932); Johann Rudolf Zumsteeg, 1805; Václav Tomášek, 1815 (Das Geheimnis); Franz Schubert, 1821 (D 726) e 1826 (D 877); Theodor Fröhlich, 1830; Carl Gottlieb Reißiger, 1832; Franz Commer, 1843; Robert Schumann, 1849 (op. 98a n. 5); Anton Rubinštejn, 1870 (op. 91 n. 10); Pëtr Il'ič Čajkovskij, 1883 (Nie sprašivaj op. 57 n. 3); Hugo Wolf, 1888; Fartein Valen, 1927 (v., orch.; op. 7 n. 2); Bernard Reichel (1901-1992); Otto Klemperer, 1970; Erik Battaglia, 2010 (M). [Una versione erroneamente attr. a Joseph Haydn in Zärtliche und Scherzhafte Lieder aus galanter Zeit, Wien-Prag 1925].

Dieselbe (Nur, wer die Sehnsucht kennt)
La stessa (Solo chi smania di desiderio), 1785

Johann Friedrich Reichardt, ed. 1795-96 (1a vers., duetto) e ed. 1805 (2a vers.); Carl Friedrich Zelter, 1795; Ludwig van Beethoven, 1808 (4 vers.); Johann Christoph Kienlen, 1810; Carl Friedrich Zelter, 1812; Franz Schubert, 1815 (D 310) e 1816 (D 359 e D 481); Wenzeslaus Rafael Gottfried Purgstall (1798-1817); Carl Loewe, 1818 (op. 9, III, n. 5); Johann Anton André, 1818/19; Carl Friedrich Zelter, 1818; [Franz Schubert, 1819 (TTBBB, D 656)]; Ignaz von Mosel, 1820/21; Franz Schubert, 1826 (Duetto D 877 n. 1 e Lied D 877 n. 4, orch. F. Liszt, 1860); Fanny Hensel, 1826; Carl Gottlieb Reißiger, 1832; Josephine Lang, 1835; Heinrich Proch (1809-1878); Robert Schumann, 1849 (op. 98a n. 3; trascr. per solo pf. di F. Liszt); Pëtr Il'ič Čajkovskij, 1869 (op. 6 n. 6); Anton Rubinštejn, 1870 (Duetto op. 91 n. 7); Robert von Keudell, 1870; Ivar Paul Fredrik Holter, 1878; Hugo Wolf, 1888; Emánuel Moór (1863-1931); William Harold Neidlinger, 1904; Karl Theodor Flodin, 1907; Nikolaj Medtner, 1910 (op. 18 n. 4); Samuel Gardner, 1916 (Ye only); Hugo Kauder, 1932 (M); Bernard Reichel (1901-1992); Otto Klemperer, 1970.

Dieselbe (So laßt mich scheinen)
La stessa (Lasciate ch’io sembri un angelo), 1796

Johann Friedrich Reichardt, 1796; Carl Friedrich Zelter, 1797 (Mignon als Engel verkleidet); Karl Spazier, 1799; Wilhelm Schneider, 1809; Franz Schubert, 1816 (D 469a e b, framm.), 1821 (D 727) e 1826 (D 877); Robert Schumann, 1849 (op. 98a n. 9); Anton Rubinštejn, 1870 (op. 91 n. 12); Hugo Wolf, 1888; Fartein Valen, 1927 (v., orch.; op. 7 n. 1); Bernard Reichel (1901-1902); Otto Klemperer, 1970.

Dei tre Mignon-Lieder di Schubert (1826) esiste una trascrizione per voce e quartetto d’archi di Aribert Reimann, 1997.


1 «Il carro del sole disperde la notte, / ed essa, quando è ora, deve rischiararsi; / la dura roccia spalanca il suo petto, / e alla terra non nega le sue fonti occulte». Le traduzioni, qui e passim, sono tratte da Erik Battaglia, Gioia e dolore diventano canto. Mille Lieder su poesie di Goethe dal 1769 al 1999, Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 2008. In quel libro sono prese in esame tutte le versioni principali (circa settanta) dei canti di Mignon.

2 Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, trad. di Nicolao Merker, Torino, Einaudi, 1972 (1a ed. 1967), p. 956 (ed. orig. Vorlesungen über die Ästhetik, Leipzig, Duncker & Humblot, 1835-1838; ed. moderna, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1970).

3 Cfr. a questo proposito la corretta etimologia proposta da Mittner: «La più caratteristica parola del romanticismo tedesco, “Sehnsucht”, non è lo “Heimweh”, la nostalgia (male, cioè desiderio, del ritorno ad una felicità già posseduta o almeno nota e determinata); è invece un desiderio che non può mai raggiungere la propria mèta, perché non la conosce e non vuole o non può conoscerla; è il “male” (Sucht) “del desiderio” (Sehnen). Ma “Sehnen” stesso significa assai spesso un desiderio irrealizzabile perché indefinibile, un desiderare tutto e nulla ad un tempo; non per nulla “Sucht” fu reinterpretato, con una di quelle false etimologie che sono invece creazioni di nuove realtà psicologiche ed artistiche, come un “Suchen”, un cercare […]», cfr. Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, Torino, Einaudi, 1977, II, tomo terzo, pp. 699-700. Mittner propone la traduzione «struggimento», certamente più poetica, ma «smania» o «smania di desiderio» aggiungono il necessario tratto patologico, la Sucht come «astinenza».

4 Trad. da Erik Battaglia, Gioia e dolore diventano canto, cit. Nur wer die Sehnsucht kennt / Weiß, was ich leide! / Allein und abgetrennt / Von aller Freude, / Seh ich ans Firmament / Nach jener Seite. // Ach! der mich liebt und kennt, / Ist in der Weite. // Es schwindelt mir, es brennt / Mein Eingeweide. / Nur wer die Sehnsucht kennt / Weiß, was ich leide!».

5 Cfr. ad esempio David Cooper, Bernard Herrmann’s Vertigo. A Film Score Handbook, Westport (CT), Greenwood Press, 2001

6 «Mignon kann wohl ihrem Wesen nach ein Lied, aber keine Arie singen» (Johann Wolfgang von Goethe, Goethes Gespräche, vol. 4, a cura di Woldemar Freiherr von Biedermann, Leipzig, Biedermann, 1894, p. 184).

7 Cfr. Erik Battaglia, Analisi samsiana dei duetti di Schumann, in Eric Sams, I Lieder di Robert Schumann, Asti, Analogon, 2011, pp. 319-371.