Giorgio Pestelli
Su alcune intonazioni dei Lieder di Mignon
Sarebbe impossibile esaurire, nella misura ragionevole di un intervento, la quantità di intonazioni musicali dei canti di Mignon che si sono moltiplicate a partire dall'uscita del primo Wilhelm Meister. Ho deciso quindi di dedicare la mia attenzione a uno soltanto di questi canti, il più famoso, Kennst du das Land, scegliendo alcune intonazioni un po' eteroclite, che si collocano fuori dalla via maestra del Lied tedesco e che sono interessanti proprio per questo. Come afferma nel suo testo introduttivo Cesare Mazzonis,1 chi è sepolto rinasce in virtù dei musicisti; e qualche volta rinasce persino in modo un po' diverso da come si era addormentato: è uno degli aspetti più significativi della storia della cultura, in cui non ci sono mai riproduzioni meccaniche, ma ogni ripresa di testi e opere comporta qualche novità, qualche aggiunta, qualche traccia interpretativa.
Quando nel 1795 uscirono Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Lehrjahre), nel libro erano inseriti, in formato superiore a quello del libro e quindi ripiegati accuratamente, otto Lieder di Johann Friedrich Reichardt, ciascuno collocato proprio nel punto del romanzo in cui veniva cantato il testo corrispondente. Poi col tempo questa pratica sparì e gli inserti non si pubblicarono più, salvo alcuni particolari casi di stampe che riproducevano all'interno del testo letterario anche semplicemente un rigo musicale per suggerire il canto che si accompagnava alla poesia. Questo aspetto ha indotto molta critica a pensare sempre al contesto di questi Lieder e a sottolineare il legame fra le singole poesie e la narrazione. Di fatto, però, ben presto queste poesie avevano cominciato a circolare in autonomia, a camminare per vie proprie, diffondendosi indipendentemente dal romanzo. Da qui il problema, subito emerso, della fedeltà al testo poetico nel tipo di intonazione musicale scelta. Nei primi anni dell'Ottocento quest'aspirazione alla fedeltà faceva scattare come conseguenza immediata quell'aspetto tipico del classicismo a cui ha accennato Riccardo Morello,2 ossia la discussione in merito ai generi: in questo caso il problema era quale genere musicale associare ai testi poetici del Meister. I generi praticabili erano due: il Lied, ossia una canzone semplice e strofica, oppure l'aria, con riferimento all'aria italiana e quindi a una maggiore ampiezza di articolazione, a una presenza più evidente dell'accompagnamento, addirittura al virtuosismo vocale. Su questo tema c'è nella storia della cultura un nodo celebre in cui entra a dire la sua anche lo stesso Goethe, sia pure indirettamente; si tratta della testimonianza di un musicista ceco, Wendel [Václav] Tomášek, che intorno al 1822, quindi in anni tardi, aveva incontrato Goethe. Tomášek apparteneva alla folta schiera di compositori che avevano messo in musica Kennst du das Land (nel 1874, passandole in rassegna, se ne erano contate ottantaquattro, e probabilmente saranno anche molte di più!) e ne parlò con Goethe, che disse: «Non riesco a capire come Beethoven e Spohr abbiano potuto del tutto fraintendere il Lied, trattandolo in modo durchkomponiert [ossia in un modo non strofico, che inventava la musica via via che la poesia proseguiva]. Identici segni distintivi posti da me in ciascuna strofa agli stessi luoghi avrebbero dovuto mostrare al compositore – almeno credo – che io mi aspettavo da lui un semplice Lied. Mignon per com’è può ben cantare un Lied, non certo un’aria».3 Bisogna tener conto che queste non sono parole di pugno di Goethe; sono parole riportate da Tomášek, che notoriamente era di indole invidiosa e sparlava sovente dei colleghi musicisti, per cui non è da escludere che volesse prendersi una rivincita, mostrando di aver intonato il testo in quella maniera strofica che Goethe riteneva l'unica idonea, mentre altri erano andati oltre i limiti.
Tuttavia, per quanto questa dichiarazione lasci spazio a ragionevoli perplessità, in un altro caso celebre abbiamo invece le parole autentiche di Goethe: quando Mozart, che lui peraltro venerava e che considerava il più grande musicista del suo tempo, intonò Das Veilchen (La violetta), disse che Mozart si era soffermato troppo sui particolari della poesia, invece di vederla a distanza, di inventare per lei una melodia (come diceva lui) "runde", ossia che avvolgesse tutto, unica, levigata; non, come aveva fatto Mozart, frammentata in miniature che individuano ora la pastorella che arriva, ora il fiore che viene calpestato e così via. Quindi è probabile che Goethe preferisse veramente le intonazioni strofiche di tipo liederistico, anche se Tomášek ha calcato la mano nel riportare le sue affermazioni.
Fondamentalmente la discussione verteva sulla differenza fra aria e Lied, e sull'opportunità di ricorrere all'una o all'altro; la cosa curiosa, che tutti hanno rilevato, è che questa critica riportata da Tomášek è del tutto fuori bersaglio, perché sia Beethoven sia Spohr hanno intonato Kennst du das Land in forma perfettamente strofica, nient'affatto riconducibile all'aria e neanche alla formula durchkomponiert: ne hanno tratto due Lieder nel senso più puro e preciso del termine.
Vorrei partire dal Lied di Beethoven, il più celebre dei due, tanto per aver un punto di riferimento. È curioso come Beethoven abbia tenuto la mano insolitamente leggera nella composizione di questo lavoro, a dispetto dei rilievi di Tomášek. Il brano è del 1809: ossia, nello stesso anno in cui scrive il Quartetto op. 74 che è un lavoro straordinario per inventiva e originalità, scrive poi anche questo Lied, in cui davvero sembra tirarsi indietro, quasi che ci fosse un destino, nei generi: il quartetto, la sonata, la sinfonia per Beethoven erano tutti proiettati sul futuro, mentre il Lied lo induceva, qui in particolar modo, a conformarsi alla tradizione e non tentare esperimenti. C'è soprattutto un dettaglio a denotare questo carattere ancora settecentesco: il fatto che la mano destra raddoppi costantemente la parte del canto, proprio come si faceva d'abitudine nel Settecento per sorreggere garbatamente il cantante o, ancora meglio, per consentire a un pianista dilettante di suonare il pezzo a casa sua e contemporaneamente cantare la melodia, agevolato dal fatto che la mano destra e la voce coincidessero.
Voglio solo evidenziare alcuni passi del Lied di Beethoven, che sono poi rimasti tipici nelle varie intonazioni successive, come a suggerire un modello. Certamente, con Kennst du das Land stava comunque avviandosi al termine l'epoca delle pure e semplici intonazioni, come le concepiva per esempio Reichardt, i cui Lieder erano poco più che una lettura intonata. Nel brano di Beethoven, invece, abbiamo delle dignità tematiche che si spargono qua e là caratterizzando alcuni momenti; sicché, pur essendoci ancora una parte strumentale concepita in appoggio alla voce, altri elementi segnalano la fine della prima fase del Lied, quella settecentesca di cui proprio Reichardt è un culmine e nella quale lo scopo del Lied era solo di rendere più espressiva la lettura del testo poetico.
Ogni strofa di Kennst du das Land viene scandita in tre momenti: quei «segni distintivi» che, secondo Goethe, avrebbero dovuto suggerire implicitamente la necessità di una ricorrenza strofica nella resa musicale. Il primo momento corrisponde a una descrizione (del paese lontano e mitico nella prima strofa, di una casa misteriosa nella seconda, di una montagna incantata e spaventevole nella terza); il secondo coincide con la domanda «Kennst du es wohl?», e Beethoven lo segnala separandolo dalla parte precedente e dalla successiva con pause che interrompono il discorso e ne modificano il flusso; il terzo è la parte risolutiva, dedicata alla meta che si vuole raggiungere, il lontano «dahin» da ritrovare, la dimensione a perdita d'occhio che si intravede. Beethoven per quest'ultima sezione cambia addirittura il ritmo, accelerandolo su un 6/8 a cui corrisponde anche una nuova idea musicale: la tripartizione contenuta nel testo sollecita quindi una tripartizione di ciascuna strofa e l'individuazione di tre momenti ben distinti. Il rispetto di questa scansione interna, e il modo stesso in cui la realizza, saranno un modello per molti altri musicisti. Nella prima strofa, dopo l'esordio in cui la prima frase musicale isola con precisione il primo verso, come a evidenziarne già il carattere di domanda, l'idea del «lene vento» («sanfter Wind») che fa fremere i limoni suggerisce un cauto movimento di terzine alla mano sinistra. C'è poi la preparazione della domanda centrale, con il pianoforte che anticipa il tema che poi la voce ripeterà, restando sospesa nell'interrogativo e simulando perfettamente nella linea ascendente del canto la curva prosodica tipica delle domande. Infine ecco il «dahin», che coincide con un andamento più mosso e con l'instaurarsi del ritmo ternario. Le ripetizioni di parole sono molto poche: tra le poche eccezioni, la ripetizione finale del «dahin», in funzione di progressivo allontanamento: un'idea, questa, che sarà centrale nel ciclo An die ferne Geliebte, fa un passo più a fondo nell'interpretazione della poesia. Curioso vedere come di fronte a una grande poesia, come questa di Goethe, Beethoven tenga la mano leggera, mentre in An die ferne Geliebte, su versi che gli ha offerto un oscuro studente di medicina di Vienna, Aloys Jeitteles, profonda tutto quello che di più interiore e di più romantico poteva dire.
In Kennst du das Land invece gli basta accennare a un contorno generale, sbozzarne il profilo; è curioso il fatto che, proprio all'inizio, la linea melodica che accompagna il primo «Kennst du das Land» corrisponda all'attacco di una Sonata per pianoforte, l'op. 78, che comincia con lo stesso ritmo e anch'essa in Adagio; una sonata così prodiga di aspetti preromantici condivide quindi il gesto d'apertura con questo Lied così classico; ma in generale colpisce il fatto che in un anno ricco come il 1809, lo stesso del Quinto Concerto per pianoforte, in mesi che vedono tutto l'ego di Beethoven fervere e tumultuare, possa nascere un brano ancora così vicino ai canoni del Settecento. Non vi è, quindi, nulla dell'inquietudine ambigua e febbrile della figura di Mignon; tanto meno ci sarà in Spohr e negli altri autori; per trovare una corrispondenza tra l'identità poetica di Mignon e la sua riscrittura musicale bisogna attendere la versione che ne daranno Schumann, già molto più avanti, nel 1849, e poi Wolf, addirittura ormai alla fine del secolo. In Schumann basta sentire i cromatismi del pianoforte proprio all'inizio perché l'identità interiore di Mignon sia avvertita come qualcosa di introverso, tormentato e misterioso.
Non mi soffermerò su Spohr se non per ricordare che, a dispetto della critica che gli era stata mossa, il suo brano è strofico, e per aggiungere che anche lui, come Beethoven, fa raddoppiare la parte vocale dalla linea della mano destra. Della versione di Tomášek, gradevole e molto mozartiana, va rilevato che è per così dire ancor più strofica delle altre, nel senso che non c'è nessuna variante, neanche minima, tra una strofa e l'altra, tanto che il Lied è impaginato sull'edizione a stampa con il testo delle tre strofe incolonnato sotto la stessa pagina musicale: la corrispondenza è millimetrica, mentre tutti gli altri musicisti si erano riservati almeno la libertà di minimi cambiamenti: per esempio, in corrispondenza della terza strofa, quando il testo parla del sangue dei draghi, nessuno aveva rinunciato a imprimere al discorso un certo movimento, che appare, sia pure cautamente, già in Beethoven.
Vorrei tornare ancora per un momento alla differenza fra Lied e aria, e al problema di scegliere l'una o l'altra forma per intonare un testo poetico. Le tentazioni teatrali che la figura di Mignon ha sollecitato si vedono molto bene in alcuni autori; uno di questi è Gaspare Spontini, musicista italiano che però negli anni Venti dell'Ottocento era molto ben integrato a Berlino. Spontini mette in musica Kennst du das Land tenendosi sostanzialmente fedele alle tre strofe; anche lui quindi non inventa materiale nuovo man mano che il testo procede e lo tratta formalmente come un Lied; però ogni tanto la scrittura tradisce con molta evidenza la tentazione teatrale. Ce ne accorgiamo, per esempio, in due elementi: il primo è la ripetizione abbastanza frequente di parole, soprattutto nel caso delle domande: «Kennst du», «mit dir», queste invocazioni vengono ripetute e si infittiscono via via, nella terza strofa ricorrono addirittura molte volte; l'altro invece si avverte in alcuni interventi armonici che danno al brano un'insolita pienezza lirica.
Proprio all'inizio del brano c'è una piccola prefazione del pianoforte, di tono grazioso e abbastanza espansa rispetto alle proporzioni abituali del Lied:
Su «sanfter Wind» anche Spontini muove il discorso, come Beethoven che sembra in effetti essergli stato presente nella composizione di questa pagina; mentre in Beethoven però interveniva semplicemente un disegno in terzine, Spontini ricorre al tremolo. La domanda «Kennst du es wohl?» viene ripetuta due volte; nella terza sezione su «dahin» va notata la posizione dell'accento, che cade sulla a, «dà-hin» anziché «da-hìn» come si dovrebbe. Naturalmente dipende dall'esecutore riequilibrare la prosodia nel modo corretto, ma la scrittura inequivocabilmente anticipa l'accento sulla prima sillaba anche nelle varie ripetizioni; il pianoforte continua a sorreggere il discorso utilizzando tremoli un po' melodrammatici, mentre la voce sale via via all'acuto (con foco), amplifica gli intervalli ed enfatizza i toni; la conclusione del ritornello, così dilatato, viene poi sfumata e allontanata in un modo che ricorda di nuovo Beethoven.
A questo punto, Spontini con un breve raccordo va
a riprendere la prefazione strumentale che aveva aperto il brano, e
da lì sfocia nella seconda strofa, che si ripropone uguale alla
prima secondo la grammatica usuale del Lied. È nella terza strofa,
la più agitata, che l'aspirazione al teatro, la vena operistica esce
pienamente allo scoperto: il numero delle ripetizioni cresce,
l'andamento si fa più frammentato e drammatico. Dopo aver esposto
per intero il terzo e ultimo ritornello («dahin geht unser Weg; o
Vater, laß uns ziehn», bb. 110-15), Spontini riutilizza le parole
dei due precedenti ritornelli («dahin möcht ich mit dir, o mein
Geliebter, ziehn»; «dahin möcht ich mit dir, o mein Beschützer,
ziehn»), ottenendo una dilatazione ancor maggiore del refrain
(bb. 116-139, fine). L'accompagnamento si ferma inizialmente su
accordi ripetuti, su un ritmo fisso del tipo due brevi-una lunga;
subito dopo (Agitato mosso sulle parole «dahin mit dir», bb.
115-17 e bb. 121-23) interviene una modulazione di schietta radice
teatrale, che torna a caratterizzare il discorso in senso
melodrammatico.
Un altro caso in cui l'intonazione di Kennst du das Land è legata a forti tentazioni teatrali è quella composta, su una traduzione italiana della poesia di Goethe, da Francesco Pollini, musicista di Lubiana che insegnò a lungo pianoforte nel Conservatorio di Milano e fu anche ottimo cantante: in questo brano, Sai qual'è l'amena sponda, infatti si nota una cura affettuosa per la parte vocale, che tende a emergere. Pollini ha davanti a sé un testo abbastanza libero nei confronti dell'originale; la conseguenza è che lo compone con forti varianti rispetto alle intonazioni precedenti. Per esempio sparisce la domanda, il «Kennst du es wohl?», mentre il «dahin» viene allungato e trasformato in vero e proprio ritornello, interessante anche perché si espande e acquista un tono bucolico quasi da Jodel, con tanto di eco tra voce e pianoforte.
La seconda strofa dell'originale viene trattata
interamente in stile di recitativo, quanto di più teatrale si possa
immaginare, con rallentamenti e accelerazioni, accompagnamento
pianistico ridotto ai minimi termini; anzi, sulle parole «ivi stan
degli avi miei / le sembianze in marmo impresse» la voce è nuda;
tanto più spicca la morbida cantabilità del ritornello, che invece
torna a riproporsi identico e stabilisce il nesso con le altre
strofe.
Nella terza strofa, che si riallaccia alla
musica della prima, l'immagine della «cupa valle» è sottolineata
in modo notevole, così come l'idea della nebbia che si riflette
nello scurirsi dei bassi (bb. 82 e segg.); il sangue dei draghi
dell'originale si trasforma qui latinamente in sangue di lupi (bb.
88-89); si sente una certa concitazione, che i tremoli al pianoforte
accentuano (bb. 82-87); poi – dopo il ritornello – va rilevata
ancora la cadenza appena prima di concludere (bb. 106-107), con un
giro modulativo che sembra riprendere un celebre passo di An die
ferne Geliebte, già citato da Schumann nella sua Fantasia op.
17.
In questi brani la figura di Mignon, così com'era evocata nel testo di Goethe, sparisce completamente, non c'è traccia della sua ambiguità e del suo tormento, sostituiti da un clima di prevalente delicatezza. Volevo citare ancora, prima di concludere, un caso cronologicamente molto posteriore, ma interessante: la romanza della Mignon di Thomas, in cui il libretto, e quindi anche la traduzione della canzone di Mignon, è opera di Barbier e Carré, due genii del riadattamento librettistico, che hanno fatto un paziente lavoro di trasposizione e traduzione, naturalmente con molta libertà, adattando il soggetto al contesto questa volta esplicitamente teatrale. In primo luogo qui la poesia non compare da sola, ma inserita nel contesto; e il tema su cui Mignon la intonerà compare già nella scena precedente, anticipato quindi dall'orchestra, mentre i due personaggi stanno conversando e Wilhelm chiede appunto a Mignon quale sia il suo nome. Siamo in un dialogo parlato, come nelle consuetudini dell'opéra-comique francese; e l'inserirsi della musica sotto la parola fa sempre un effetto straordinario, avvicina immediatamente la scena, rispetto all'idealizzazione che domina l'opera lirica, in cui tutto ci trasporta lontano dalla dimensione reale e dalla normalità quotidiana; sentendo parlare, invece, è come se il presente irrompesse di colpo; e qui, all'interno di uno di questi momenti prosastici, ecco di nuovo prodursi il fenomeno inverso, ma per gradi, con l'ingresso dell'orchestra sotto le parole della recitazione che ancora prosegue. Inoltre bisogna dire che Thomas dà al personaggio di Mignon un carattere bucolico, che in questa scena si nota benissimo; quando Wilhelm chiede (parlando) a Mignon «Dis-moi donc quelles contrées tu as traversées pour venir jusqu'ici, vers quels lieux lointains tu voudrais être ramenée» («Che paesi hai attraversato per venir fin qua? Verso quali luoghi vorresti ritornare?»), sotto queste parole scorre una musica di evidente stampo bucolico, in qualche modo riallacciandosi a un ramo illustre della tradizione del Singspiel e dell'opéra-comique: un titolo in particolare, oggi dimenticato, ma ai suoi tempi famosissimo, era stato Die Schweizerfamilie di Joseph Weigl, tradotto in tutte le lingue, anche in italiano (La famiglia svizzera), il cui perno era proprio l'idealizzazione della natura, della montagna e della purezza alpestre. Sparisce di nuovo, quindi, il carattere sfuggente di Mignon; il paese misterioso che ancora la turba e l'attrae a sé acquista connotazioni alpine o almeno indubbiamente bucoliche, segnate anche in parte dall'idea del sogno e dell'idillio, tipica del lyrisme francese, che aveva lasciato la sua impronta già sulla Marguerite di Gounod e su vari personaggi sognanti di Massenet, inclusa un'altra figura goethiana, quella di Charlotte, ai quali corrispondeva una musica perlata ed eterea.
Se la domanda di Wilhelm provoca un intervento così idealizzato, la poesia vera e propria con cui Mignon gli risponde, qui divenuta Connais-tu le pays, è una vera e propria romanza secondo i canoni abituali del teatro musicale. La traduzione in parte segue l'originale, in parte lo rielabora liberamente: nella sezione centrale, per esempio, il testo si allontana moltissimo da Goethe; la domanda sparisce, mentre nella parte conclusiva il «dahin» diventa «c'est là, c'est là», e il testo francese inserisce le parole «aimer» e «mourir»: i due librettisti chiamano in causa il binomio di amore e morte così caro all'opera in musica, ma al tempo stesso in un contesto ormai piccolo-borghese, tanto lontano quindi dalle grandi correnti di pensiero che dal Medioevo al Romanticismo avevano elaborato in profondità quest'idea. E d'altra parte quest'inserimento mi colpisce molto; nel suo intervento letto al convegno Chiara Sandrin ha spiegato molto bene la prossimità di Mignon con questo mondo della fanciullezza sconosciuto, vicino alla morte; Mignon è Sehnsucht senza un oggetto preciso, senza una relazione vera e propria col mondo esterno; la sua natura si consuma come per autocombustione, si distrugge da sé. Sotto queste apparenze avvenenti di danza, di canto, di giovinezza, in fondo si nasconde proprio questa negazione alla vita terrena, che significa appunto desiderio di morire, di sparire: un culto della morte che, trasformandosi, diventerà un mito dell'età piccolo borghese, riscontrabile non solo nella Mignon di Thomas, ma anche nella Manon di Massenet e in certe figure di Puccini.
Ho voluto così delineare in modo sintetico la trasformazione di una figura che era nata nella poesia di Goethe, poi attraverso tentazioni soprattutto di tipo teatrale e "violenze" al testo originale e al suo contesto ha preso anche vie molto diverse da quelle pensate dal suo autore; ma, come dicevo all'inizio, la cultura si trasmette meglio attraverso queste infedeltà di quanto possa avvenire realizzando invece delle copie conformi di una realtà data.
3 Johann Wolfgang von Goethe, Goethes Gespräche, vol. 4, a cura di Woldemar Freiherr von Biedermann, Leipzig, Biedermann, 1894, p. 184.