Cesare Mazzonis

Mignon risorge nella musica


«Um Gottes willen, keine Sentenzen weiter!»1 («Per l'amor di Dio, non continuiamo con le sentenze»); questo è quanto ha ancora la forza di gridare Wilhelm Meister durante i funerali di Mignon, perché i due che fanno da tutori allo stesso Wilhelm Meister, ossia Jarno e l'Abbé, non hanno smesso durante tutti i funerali della povera ragazza di sentenziare molto freddamente. Ma questo grido di ribellione è più o meno l'ultimo, né più se ne incontreranno all'interno dei Wanderjahre, dell'ultimo volume del Wilhelm Meister. Da qui in poi il romanzo diventa sempre meno romanzo e sempre più incentrato sulla Bildung, cioè diventa del tutto un'opera pedagogica. La morte di Mignon si fa indice di un rovesciamento, almeno nei Wanderjahre; quasi a dirci che il requiem per lei è un requiem per la poesia, non solo una rinuncia («Entsagung») di tutti i personaggi alle loro vocazioni, alle loro tendenze per fare qualcosa di utile, per essere «tätig», ma una rinuncia di Goethe stesso. Nella scrittura di quanto segue diventa infatti sempre più generico; o meglio, è la scrittura a diventare sempre più generica, con un'aggettivazione scontata, come se da qui in poi Goethe fosse frettoloso di dire, anzi, forse proprio di sentenziare; sembra ormai più interessato al messaggio che non al modo di trasmetterlo.

Si è detto persino che i Wanderjahre siano una sorta di opera aperta, in cui entra ed esce di tutto; Goethe stesso la chiamava «Aggregat», scusandosi talvolta con il lettore per essere troppo didattico. Certo, quando arriva addirittura a sentenziare (ho scelto soltanto una delle tante, innumerevoli sentenze) «wo genug zu schaffen ist, bleibt kein Raum zur Betrachtung»2, qualificando la cosa come positiva, dice invece una cosa orrenda. E allora addio al Dichter, quindi, a quello la cui parola dovrebbe essere dicht, pregnante, densa (anche se forse Dichter deriva da dictare); addio a certi personaggi che erano straordinari, sia nella Teatralische Sendung sia nei Lehrjahre: un personaggio delizioso come Filine, per esempio, diventa una sarta coscienziosa, mentre il suo ragazzo fa il calcolatore meccanico; e così via.

Che ne sarebbe stato di Mignon, se fosse rimasta in vita all'interno del romanzo? Che ne avrebbe combinato Goethe? A questo proposito possiamo richiamarci a un episodio che costituisce un contrasto sensibile rispetto al puro spirito volontaristico del resto. I rinuncianti, gli «Entsagenden» del sottotitolo aggiunto nella redazione del 1829 (Wilhelm Meisters Wanderjahre oder die Entsagenden), un giorno si ritrovano nei luoghi di Mignon, sul suo lago; è notte, splende la luna; a loro che la contemplano da una terrazza si stringe il cuore perché sanno che il giorno dopo la regola a cui si sono sottoposti esige una separazione: «Das Vorgefühl des Scheidens verbreitete sich über die Gesamtheit».3 In questo clima di tristezza generale, un cantore attacca le strofe di Mignon, nientemeno che «Kennst du das Land» e tutti scoppiano a piangere. Questo episodio è tipicamente goethiano, a mio avviso. Aggiungerei: Goethe è un'anguilla, quando pensi di averlo classificato, muta pelle; se ricordi alcuni tratti del vecchio Goethe, la sua fissazione per la Farbenlehre, la collezione dei modelli in gesso (io personalmente detesto poche cose più di una gipsoteca, nella quale la materialità, la vibrazione dell'originale viene spenta), giudizi quantomeno singolari come quello che trova abominevole una delle torri di Bologna perché pende, perché è fuori quadro; e poi ancora tutte le sentenze dei Wanderjahre, nonché le manie produttive del vecchio Faust; insomma, quando stai dicendo tra te: è invecchiato, è diventato un freddo signore pedante; ecco che invece al ricordo di Mignon tutto si rovescia e nasce questo strano episodio sul lago.

Ma questo è soltanto uno dei tanti esempi. Ne cito almeno un altro: quando il vecchio Faust è proprio alla fine, sente il rumore delle pale e si entusiasma, immaginando che gli uomini stiano costruendo un'altra diga, per allontanare il mare e creare nuovo spazio per la civiltà; non si accorge, perché è ormai completamente cieco, che quelle sono invece le pale dei lemuri intenti a scavargli la fossa; e Mefisto, l'altra faccia di Goethe, irride crudelmente alle sue illusioni in punto di morte. Allora tutto torna nuovamente a rovesciarsi, a rendersi dubbio: le classificazioni non sono più quelle. D'altronde Thomas Mann l'aveva detto molto bene: nel finale di Lotte in Weimar, quando fa trovare i due vecchi innamorati in carrozza alla sera, e Goethe dice che la metamorfosi è ciò che più di tutto gli appartiene e lo attrae («Wisse, Metamorphose ist deines Freundes Liebstes und Innerstes, seine große Hoffnung und tiefste Begierde»4). Fino alla fine, Goethe sfugge quindi a ogni classificazione. Così succede anche con Mignon, questa figurina misteriosa che compie i suoi saltelli di prestigio tra uova messe in fila, e che si accompagna a un arpista nei cui canti «vi era più rappresentazione nel suo canto che nei nostri personaggi, rigidi sulla scena»,5 secondo le parole dello stesso Wilhelm; parole che sembrano veramente una profezia, un'anticipazione preveggente delle future capacità di rappresentare e di narrare che i canti di Mignon acquisteranno nelle ballate e nei Lieder romantici. Mignon quindi sopravvive, e sopravvive perché l'hanno accompagnata fino a noi i musicisti, captando questa sua vitalità che va oltre la pagina e oltre i limiti del romanzo.

Vorrei chiudere con un'osservazione a latere: sono stati pubblicati diversi studi per dimostrare quanto Mozart fosse intriso di illuminismo e della cultura dei tempi in cui viveva; si è parlato per esempio della sua biblioteca, sottolineando che fra i suoi libri c'era anche il Télémaque di Fénélon. Benissimo, Mozart non era certo quel gonzo che propone il film Amadeus. Ma è la musica a far sì che, fra le due opere che si vogliono parimenti didattiche, il Flauto magico risulti un prodigio e il Télémaque una noia solenne. E allora all'interno della finzione del romanzo è bene che il seppellimento di Mignon resti una doppia finzione: chi viene sepolto risorge, tramite i musicisti.


1. Johann Wolfgang von Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, libro 8, cap. 5, in Sämtliche Werke, vol. 9, Frankfurt am Main, 

Deutscher Klassiker Verlag, 1992, p. 933.

2. Johann Wolfgang von Goethe, Wilhelm Meisters Wanderjahre, libro 2, cap. 7, in Sämtliche Werke, vol. 10, Frankfurt am Main,  Deutscher Klassiker Verlag, 1989, p. 513 [«Là dove vi è spazio sufficiente per creare, non ne resta per osservare»].

3. Ivi, p. 510 [«La percezione del distacco imminente si diffuse sulla compagnia»].

4. Thomas Mann, Lotte in Weimar, cap. 9, in Gesammelte Werke, vol. II, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1974, pp. 763-4 [«Sappi, la metamorfosi è quanto sta più a cuore e nell'intimo del tuo amico, la sua grande speranza e la brama più intensa»].

5. J. W. von Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, libro 2, cap. 11, in Sämtliche Werke, vol. 9 cit., p. 485.